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R Recensione

7/10

Samantha Glass

Mysteries From The Palomino Skyliner

Non si può parlare, per Samantha Glass (aka Beau Devereaux), di epigonismo hypnagogic-pop, dal momento che il ragazzo era già in campo tra 2009 e 2011, durante l’esplosione della scena nell’underground statunitense, attraverso una serie di cassette uscite tra Digitalis e Not Not Fun. Resta da prendere atto che solo ora, a fine 2012, Devereaux cala il proprio asso, con il suo primo vero album, “Mysteries from the Palomino Skyliner”, 41 minuti che si propongono come una specie di summa del Not Not Fun-sound degli ultimi anni.

Rispetto ai lavori su cassetta, caratterizzati da lunghi bordoni su synth screziati in direzione sci-fi e ricami chitarristici da ipnosi retrofurutista (Dylan Ettinger, Sand Circles e dintorni), qua Samantha Glass alleggerisce le proprie sonorità, rendendole più accessibili, persino pop a tratti, quando interviene – ed è una novità – l’elemento vocale. Applica, insomma, lo stesso procedimento dei Peaking Lights all’epoca di “936”, e non è un riferimento casuale: in pezzi come “When the Sun Slips In” e ancor più “Lost Along the Way” si viene travolti da colorate esplosioni di psichedelia dub che non possono non rimandare al duo del Winsconsin. La tastiera ricama melodie sottopelle mentre il basso e una magnetica drum-box reggono le fila, con Devereaux che gioca a impiastricciarci sopra vocals granulosi e riempiti di distorsione.

Tutto l’Lp, in realtà, corre su questi binari, facendosi ascoltare alla grande tanto negli episodi più easy-listening (“Visiting Night Eyes”) quanto nelle suite più elaborate: le tre parti di “Return to the Sky” che occupano quasi interamente la seconda facciata sono una notevole goduria di synth vintage, organi da trance tropicale, chitarre rugose e voce incantatoria. Apice è l’auto-rifacimento di “Seasonal Seduction” (già in “Celestial Night Queen”): per un artista che si proclama alla ricerca di strade aliene e di passaggi per dimensioni extraterrestri (questo “Palomino” sarebbe «musica per lasciare la terra»), si tratta di nove minuti centrali, forse tra i più esemplari di un intero genere, assieme a certe cose del maestro James Ferraro. L’equalizzazione ondivaga e i beat a rimbalzo sui loop delle tastiere che poi prendono all’improvviso fughe labirintiche, in un’estasi allucinogena su sfondi intergalattici o di metropoli futuribili, propongono una sorta di quintessenza hypna nella declinazione più kosmische. Eccellente.

Peccato che il disco, caduto in leggero ritardo rispetto al micro-hype degli scorsi anni, stia passando inosservato. Merita.

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