Alvvays
Alvvays
Ci mancava solo che i canadesi si dessero allindie pop. Fatto. Ed è un disco praticamente perfetto.
Uscito in cassetta già nel 2013, il disco eponimo degli Alvvays, da Toronto, vede una pubblicazione ufficiale solo questanno, e meritatamente: i nove pezzi che lo formano, prodotti da quel genietto di Chad VanGaalen, sono la cosa più fresca che in ambito twee si sentisse da tempo. La voce di Molly Rankin infila una serie di melodie killer sopra una base strumentale grandiosamente dosata, per cui i tocchi aggiuntivi di synth, le leggere distorsioni, le sfocature e gli effetti vocali sono calibrati senza eccessi di epigonismo ma al contempo con un mirabile rispetto della grammatica indie pop.
Ci sono, certo, le ascendenze tipiche, dai Camera Obscura di The Agency Group al C86 più sfacciato di Next of Kin, passando per la linea che dalle Vivian Girls più pop risale a Shop Assistants e Talulah Gosh (Archie, Marry Me), e ci sono i doverosi saliscendi emotivi, dalla nostalgia granulosa a pioggia di Party Police che si costruisce su un giro di chitarra che, come le cose indie pop migliori, pare un semplicissimo miracolo alle vibrazioni positive di Atop a Cake (classico subito).
Ma poi, come non sempre nella pletora di band simili agli Alvvays, cè una grande intelligenza nei testi (molto più ossessivi e disturbati di quanto il genere possa suggerire), una Adult Diversion da battimani eterno, un ricorso occasionale alla drum machine che sorprende (Dives), una sgranatura e scabrezza nel suono delle chitarre che certo VanGaalen ha già applicato ai propri dischi (Diaper Island in testa) e a quelli di band ben più muscolose (Women in testa) ma che qua mostra come possa benissimo calzare anche in ambiti (apparentemente) più scanzonati. E così la luminosità indie pop viene sporcata e arricchita, tanto più che la voce stessa, sovente mixata al punto da renderla inintelligibile, affonda e sembra perdersi tra i meandri degli amori impossibili che esplora.
Apice, nel genere, dellanno, e qualcosa di più.
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