Architecture In Helsinki
Places Like This
I paladini indiscussi dellindie pop sono tornati fra noi.
Due anni e mezzo: tanto è passato dalla pubblicazione di In Case We Die, il secondo album, nonché capolavoro, dellottetto australiano (!) Architecture In Helsinki. Portabandiera del disco, la favolosa Do The Whirlwind, un copia/incolla acusticoide di trombe, campanelli, sitar, carezzato dalle voci festose del collettivo, altalenante come il rispettivo video, giocoso e bizzarro, realizzato durante una corsa sulle montagne russe. Tutti, nella sfera indipendente, si erano presto innamorati di loro, del loro modo di fare, della loro attitudine, svagata e spensierata allo stesso tempo.
E del loro disco, del loro bellissimo disco, senza alcun dubbio: fra chitarrine flangerate, rumori non meglio identificati, utensili quotidiani trasformati in strumenti (seghe, martelli e chi più ne ha più ne metta) e un fantastico approccio alla forma/canzone, curioso e, talvolta, impertinente, gli otto avevano raggiunto il picco assoluto di gradimento, sia dalla critica che dal pubblico. Non un attacco mosso contro gli AIH: In Case We Die aveva messo proprio tutti daccordo, al contrario del pastellato esordio Fingers Crossed (2003), ancora un po immaturo. E molti, nelleuforia generale, avevano già strappato i vecchi poster dei Belle And Sebastian. Nel caso fossero morti.
Ora, dopo luscita di questo nuovo Places Like This, possiamo affermare: tenete pure attaccata la locandina degli Architecture In Helsinki, ma riappendete anche quelle dei Belle And Sebastian e compagnia varia. Difficile, quasi impossibile fare meglio di quella gemma splendente di In Case We Die: ed infatti, il miracolo dellultimo lustro pop non è avvenuto. Se di pop ha ancora un senso parlare. Perché sì, sembrerà davvero un controsenso, ma gli Architecture In Helsinki non sono più la gioiosa cricca poppettara di qualche anno fa. O almeno, non più come un tempo.
Password: sperimentazione. Ecco qual è il lemma che gira intorno alla mutazione degli AIH, positiva o meno che sia. Gli australiani sono maturati, hanno sentito la pressione che gravitava minacciosa su di loro, impaziente di schiacciarli con lombra ingombrante del precedente masterpiece. Perciò, si sono dati da fare, per non riciclare i soliti suoni e venire imprigionati in un terribile cliché senza fondo. In questo senso, il singolone Heart It Races può fuorviare gli ascoltatori, con la sua girandola di coretti altisonanti, che tanto abbiamo conosciuto ed apprezzato, snodata su un tappeto di solidi beat elettronici. Infatti, gli AIH, quando più, quando meno, hanno deciso di aumentare il tiro dei pezzi, irrobustendo gli inserimenti di chitarra, oppure inserendo una maggiore quantità di synth pizzicanti. In poche parole: meno pop, molto più rock, molta più elettronica. Cercando, in ogni caso, di dare al tutto unimpronta personale, quasi un marchio di fabbrica.
I primi ascolti di Places Like This non risultano essere facilissimi, non tanto per una presunta pesantezza sonora, quanto per la mancanza di validi punti di riferimento. Feather In A Baseball Cap è il nuovo manifesto della svolta intrapresa dai Nostri: una sola voce maschile, nel mezzo di un continuo mulinello di cutnpaste e effetti sonori, più o meno riusciti. Lopener Red Turned White ha, invece, un poderoso serraglio, totalmente inconsueto per i canoni degli Architecture In Helsinki, a metà fra synth pop à la Depeche Mode e punk rock classico. Più ortodossa la vivace Hold Music, col suo incedere zigzagante, come un carillon ubriaco, fra ottoni e sintetizzatori.
Intendiamoci: non che i riferimenti al passato recente del gruppo non ci siano. Solo, sono più nascosti del dovuto, riarrangiati con un cipiglio più severo e arricchiti con nuove sonorità. Underwater, ad esempio, sarebbe stato un brano perfetto da inserire nel contesto di In Case We Die, se solo fosse stata più spigliata, meno eterea e meno appesantita da effetti ambient che profumano di Eluvium. O ancora, la ritmata Lazy (Lazy), una riuscitissima mescolanza fra twee pop con coretti annessi e barocchismi rock, sempre in movimento ad abbracciare generi diversi fra loro. Per non parlare di Nothings Wrong, una canzone perfetta da cantare in gruppo, davanti ad un falò, se non fosse per occasionali controvoci da soprano, soffocate sotto una risacca di suoni gorgoglianti.
La prova migliore dellintero lavoro è, in ogni caso, una traccia che odora, se non di In Case We Die, addirittura di Fingers Crossed: è il delizioso intreccio di voci di Like It Or Not, che si arrotola e si srotola, in un continuo girotondo, attorno ad una tromba solitaria, la stessa già sentita in Do The Whirlwind. E che, in ogni caso, non stanca mai.
Tirando le somme di questo Places Like This, cosa rimane, dunque? Rimane sicuramente lidea di un buon disco, meno ordinario del solito, meno elaborato, e nel contempo più coraggioso. È un opera destinata, sin dalle prime battute, a dividere le schiere di fan che li avevano seguiti fino ad adesso. Certamente, la metamorfosi parzialmente attuata non è di impatto immediato: ci vorrà del tempo per riuscire ad inquadrare la nuova ottica degli Architecture In Helsinki, salvo ulteriori mutazioni.
Lunico vero, grande appunto che bisogna fare agli otto di Melbourne è quello della durata complessiva: se è vero che i prezzi discografici, al giorno doggi, sono assolutamente spropositati, è vero anche che dieci canzoni, per un totale di appena trentuno minuti, di certo non sminuiscono la crisi che già da tempo affolla gli incubi della musica.
Ma alla fine, che importa? Nel caso dovessimo morire, ce ne fossero di posti così! Teniamo dunque le dita incrociate: buona fortuna a noi e agli Architecture In Helsinki.
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