Ariel Pink's Haunted Graffiti
Before Today
Premessa - Scrivere di un disco citando una marea di nomi può risultare poco salutare: per quanto un album possa essere complesso, spesso si può renderne l'idea con un paio di riferimenti, riempendo quindi i rimanenti spazi con semplici aggettivi. Molto più utile che sparare dieci, quindici nomi, magari distantissimi fra loro. Il disco di Ariel Pink però, a causa di una serie infinita di citazioni dirette (alcune delle quali ai limiti del plagio), costringe esattamente a fare una lunga serie di nomi: allo scopo di rendere rintracciabili le citazioni e il relativo lavoro di intarsio. Non si intende insomma asserire che Ariel Pink suoni al contempo come tutti gli artisti che nomineremo, sarebbe ben difficile.
Sull'album - L'ultimo lavoro uscito a nome Haunted Graffiti, pubblicazioni secondarie a parte, fu "The Doldrums", nel lontano 2004. Già all'epoca chi seguiva l'artista ne decantò le capacità melodiche, benché che i brani fossero scarabocchi lo-fi registrati in maniera indecorosa e raramente mutassero in canzoni ben strutturate. Col tempo la proposta si è andata levigando, sino a svelare sottointesi insospettabili per un'eroe della scena weird: "Can't Hear My Eyes", uscita come singolo nel 2008, potrebbe essere un brano dei Foreigner di "Double Vision", fatta salva una produzione ancora di stampo lo-fi.
Si arriva così al 2010 di "Before Today", disco di canzoni registrate come si deve, levigate, rigogliose. Partiamo dal già accennato turbine di citazioni più o meno spudorate: "Beverly Kills" riprende il basso di "Many Happy Returns" degli ABC, "Round And Round" quello di "Broken English" di Marianne Faithfull, la nuova versione di "Can't Hear My Eyes" (molto diversa rispetto a quella di due anni fa) ha spostato il baricentro dai Foreigner ai Journey (il ricamo di piano e chitarra che guida il pezzo rimanda di peso alla leggendaria "Who's Crying Now"). Lungo molti pezzi scorre una netta impressione di Fleetwood Mac '75-'87 (i cori in particolare, ma anche diverse trovate ritmiche), per quanto non si riescano a scovare riferimenti a canzoni precise (non posso escludere di non averli notati, in una simile giostra di camuffamenti). Si arriva persino al punk: la frase più rockeggiante di "Little Wig" è "Ever Fallen In Love" dei Buzzcocks, la sezione ritmica nella conclusiva "Revolution's A Lie" è quella di "Public Image" dei PIL.
Ciò che stupisce è quanto queste citazioni siano pretestuose: il disco ha difatti un suono ben preciso, filtraggio mediante l'occhio dell'attuale scena indie del pop di fine Settanta/inizio Ottanta, con un occhio di riguardo per l'AOR e le radio FM. Nonostante tutti i frammenti di puzzle che il musicomane Ariel Pink inserisce qua e là a tradimento, l'album è ancorato a un'idea dalla prima all'ultima nota, la persegue con testardaggine e gusto per la ricontestualizzazione. C'è il basso degli ABC, ma il pezzo non suona come gli ABC. Ci sono i cori dei Fleetwood Mac ma i pezzi non suonano come i Fleetwood Mac. C'è un passaggio dei Buzzcocks ma il brano è tutto tranne che punk. Una volta tanto si è costretti a fare nomi, non per far capire come suoni il disco, bensì come non suoni. Le citazioni servono esclusivamente a ricreare un'impressione, un paesaggio.
Una parte fondalmentale del disegno, genialità proteiforme delle melodie a parte, è affidata alla produzione, particolarmente omogenea, con suoni ben puliti e una sovraincisione forse pastosa, ma non confusionaria. Se lo scopo era di rimandare in generale al suono di quell'epoca, mettendo in ridicolo il quoziente di derivazione, non si può che attestare il trenta e lode.
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