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R Recensione

7,5/10

Artemoltobuffa

Las Vegas Nel Bosco

Rispetto a quando Artemoltobuffa esordiva dieci anni fa, il panorama indipendente italiano ora è più ricco di ideali compagni di strada di Alberto Muffato (quanto gli deve la recente wave siciliana, da Colapesce a Dimartino?), e chissà dunque che si dia, a questo architetto musicista, il riconoscimento che merita. Sette anni dopo “L’aria misteriosa”, “Las Vegas nel bosco” non poteva che uscire sotto l’egida di Lavorare Stanca, l’etichetta di Fabio de Min dei Non Voglio Che Clara, vecchi compagni in Aiuola, oltre che vicini nella geografia e nei suoni alla creatura di Muffato. De Min qui, oltre a pubblicare, suona e produce (persino scrive, la strumentale “Las Vegas nel bosco II”, e fa la seconda voce), arricchendo le sonorità e portando in dote quelle rifiniture elettroniche già emerse negli ultimi lavori dei Clara.

Il risultato è un disco assieme fresco ma in nulla traditore della visione del mondo di Muffato, per cui gli anni sembrano non essere passati. La sua scrittura resta sempre stupefatta e lirica, pronta a prendere il quotidiano più banale e a scoprirne la magia grazie a un’ottica storta, capace di far vedere le solite cose in un modo inconsueto e rivelatore («la forma ogni volta la stessa eppure sempre diversa»). Dietro, a livello musicale, c’è l’Italia cantautorale, con la sua ricerca melodica, ma anche l’America folk e lo-fi anni ‘90 (se non proprio slowcore, vd. l’omaggio ai Red House Painters de “Il crepuscolo”, che rifà “Grace Cathedral Park” dal Rollercoaster), con le sue ballate sospese e piene di piccole inceppature.  

Così le canzoni d’amore partono dai dettagli più impoetici («Da cinque giorni io non trovo tuoi capelli dentro al lavandino», dalla dolcissima e zoppa “Fino a lunedì”) per arrivare a una delicatezza ancora più intensa proprio perché sbilenca, esaltata dal gusto letterario di Muffato (geniale l’equivoco lessicale di “Sentimento scaligero”, una perla). Che spesso, come già nei primi due dischi, pesca dai ricordi, ma li recupera non tanto nella loro esemplarità quanto nel loro mistero indecifrabile, e così “Las Vegas nel bosco” trasporta le luci di una sala giochi adolescenziale nel luogo simbolo dello spaesamento e della perdita. Tutto si sloga, e allora forse lo si capisce.

Il disorientamento, d’altronde, è nel dna di Artemoltobuffa, e quindi si passa dall’imprevedibilità marina de “Il bello delle onde” alle lande notturne e ubriache de “I terrapieni”, dall’intima solarità di “Tenere assieme” (in un crescendo che ne fa una delle chicche più splendenti di Muffato) a un’ode all’ombra da antologia (“Fiori d’ombra”, ossia Kings of Convenience in laguna al tramonto), sempre incantati da un’impressione di leggera ebbrezza, per cui i conti (ce lo insegnava “Se un giorno”) non tornano mai davvero. E il belle delle cose è nella loro, anche ordinaria, irripetibilità (“Una piega del tempo”), colta più di tutti dagli ossessivi che non cambiano registro e non sanno inventare, dai non-versatili, dai non-eclettici, che «vedi tornare in quel punto fatale cui tutto sembra congiurare» (“I testoni”, con intervento di Mario Pigozzo Favero dei Valentina Dorme).

E come una trottola, alla fine, ci si ritrova dove si era, ma dopo aver girato e aver perso le coordinate mille volte. La magia di Artemoltobuffa.

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