Atlas Sound
Logos
Massì, al diavolo le presentazioni… Settima traccia, “Quick Canal”: 8’ 38’’ di pura meraviglia. Why? Difficile dirlo. Sarà per quei due accordi di chitarra acustica arpeggiata svogliatamente, o per il gorgogliante bordone d’organo che, dalla Terra, sale in paradiso e ritorna giù a intervalli regolari. O ancora per quel ritmo squadrato, sporchetto, che ha l’andatura del motorik ma non lo è, e anzi inciampa continuamente su se stesso, convogliando tutto il peso sul secondo quarto di ogni misura. O forse sarà il nutrito tappeto di (irriconoscibili) maracas, qui intente a contendersi la scena con le chitarre shoegaze che irrompono nella seconda parte del brano. Sarà, infine, perché canta Laetitia Sadier (sì, proprio lei, la divina), come sospesa in una gelatina di echi, controcanti, “la-la-la” gracili che sbocciano in ogni angolo: fra le sue performance più magistrali ed emotive. Una prova? Prendete il ricamo melodico che si ripete più volte – ad esempio a 2’ 54’’ – nel corso del pezzo: quattro terzine discendenti e chiusura “modale-tonica”, con basso in sottodominante. Sapreste pensare a qualcosa di più “desiderabile”, in quel contesto? Un passaggio capace di farti ricordare il perché per te (me), adolescente nella seconda metà dei ‘90s, gli Stereolab erano pressappoco tutto. Ecco, “Quick Canal” sono gli Stereolab presi come pretesto per illustrare l’evoluzione dal dream pop (i primi 4’ 10’’) allo shoegaze (da 4’ 24’’ in poi). In mezzo ci sono quattordici secondi di rimescolamento sonico/semantico: la scoperta del “rumore melodico”, cesura netta fra due ere. Amore incondizionato. Dovevo dirlo, portate pazienza.
Sembrerà prevedibile, a questo punto, parlare di “Logos” come di un bel disco, ma… lo è. Col secondo atto della saga Atlas Sound, Bradford Cox (già mente dei Deerhunter) dà infatti alle stampe uno dei suoi lavori più strazianti e decisivi, open field in cui risaltano tutte le doti “mimetiche” del musicista georgiano: eclettismo sonante (si passa senza colpo ferire da indie-pop a sonorità ambient, folk e psichedeliche, persino all’interno del medesimo brano); propensione a fratturare il disegno melodico attraverso una continua reinvenzione del materiale (ascoltate le mute a cui va incontro il valzerino psych “My Halo”); vezzo di depistare l’ascoltatore con una produzione che sovente zooma sul “particolare”, mettendo in secondo piano l’essenziale. Un tessuto sonoro instabile, magmatico, dove le canzoni paiono agglomerati di fonti sonore che, magicamente, raggiungono una loro consistenza “pop” (si prenda l’appiccicosa “Washington School”, organizzata su registrazioni sovrapposte di glockenspiel e xilofoni imberbi).
C’è qualche momento un po’ tirato via (tipo l’inconcludente “An Orchid”), ma per il resto siamo su livelli di scrittura e realizzazione altissimi. “Walkabout” (ospite Noah Lennox alias Panda Bear: l’unico “animale” talentuoso del collettivo, per quanto mi riguarda) pare l’eco eroso di una giostra sunshine, il pallore di una sirenona tutta ‘60s che ti bacia la fronte con labbra al burro cacao. “Kid Climax” è la sonorizzazione electro del dolore attraverso bit che squittiscono, zampettano come formiche sottopelle. Addirittura indimenticabili (e perfetti) i 6/4 del folk-rock “Shelia”, dolcissima girandola di compassione e morte: “Sheila, you’ll be my wife, you’ll share my life/ We will grow old, we will grow old/ And when we die we’ll bury ourselves/ ‘Cos no-one wants to die alone/ Sheila, we’ll die alone, togheter”. “Criminals” e la scheletrica “Attic Lights” accennano pigramente ai Velvet del terzo album (un velo aleggiante un po’ su tutto il disco, a dir la verità, assieme a quello ancor più brumoso della 4AD), mentre nell’indicibilmente bella “The Light That Failed” è un Alex Chilton addormentato, il corpicino avvolto da garze, a materializzarsi in una nube di vocette traslucide, con l’acustica che rifà il verso proprio a “Kangaroo” dei Big Star e quel falsetto a fluttuare come uno sciame di lucciole. E soltanto uno come Cox poteva concludere il disco con un numero – la Title Track – up tempo vagamente Motown, ma in chiave lo-fi, con synth spaziali che sfrecciano in prossimità del ritornello (alla faccia del bicarbonato di sodio!).
Sempre Cox ha ribadito che “quasi tutto su “Logos” è stato registrato al primo tentativo”, descrivendo anzi con parole entusiaste l’atmosfera di rilassatezza e spontaneità in cui sono nati i pezzi. Se tali parole corrispondono a verità, allora il lavoro in fase di post-produzione dev’essere stato massacrante, considerato che parecchie tracce sembrano letteralmente generate/riassemblate in studio. Il risultato è quest’album oppiaceo eppur nevrotico, boccheggiante, più attento alla canzone del precedente “Let The Blind Lead Those Who Can See But Cannot Feel” (2007). Un album che – si auspica – costringerà i molti detrattori a rivedere il proprio giudizio sui Deerhunter, e indurrà chi già li amava (come il sottoscritto) a sconfinare nell’adorazione. Ma anche senza giungere a conclusioni sì estreme, “Logos” conferma Cox come uno dei più consistenti talenti americani in circolazione. Volendo ridurre il tutto a un voto: siamo sul 7 ½, ma la gioia provocata da alcuni episodi – “Quick Canal” su tutti – semplicemente non è quantificabile. Da ascoltare, e anche parecchio.
Myspace:
http://www.myspace.com/bradfordcox
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