Babalot
Che succede quando uno muore
Sebastiano Pupillo è un tipo particolare: Babalot è il suo nickname ed è un incrocio tra un nome di un personaggio di Nathan Never (fumetto di bonelliana memoria) e un tipo di verme in dialetto sardo. Fa musica col computer, ha due chitarre, un basso preso in prestito e suona quando ha tempo. I componenti del suo gruppo sono tutti amici che in qualche modo danno sempre una mano. Insomma non si può dire che non incarni gran parte dell'attitudine low-fi e molto "domestica" che ultimamente va di gran moda. E' un tipo capace, ha tante cose da dire e sa come raccontarcele con uno sguardo sapientemente disilluso, causticamente ironico e simpaticamente malinconico.
Gli ingredienti principali di questo lavoro sono degli arrangiamenti frizzanti e leggeri, ma non per questo superficiali. Non è raro infatti sentire delle influenze elettroniche frutto di una sapiente ricerca atta a coniugare il sound più malinconico e cantautoriale a un vivace e sostenuto accompagnamento campionato che renda l'ascolto allegro e allo stesso tempo amaramente riflessivo, senza prendersi troppo sul serio (una formula stile Bugo, insomma). Ed è proprio con una intro electro (formula che ricorrerà negli altri due brevi stacchi) che apre il disco, frutto degli ascolti dei Depeche Mode, che sfocia in un rock cantautoriale di presentazione di "3 agosto". Qui Babalot aprendo il disco ci confessa chi è, raccontandoci di averci fatto ubriacare a scuola e di riconoscersi nelle idee rognose prima che ci prenda sonno.
Se la nostra giovinezza è stata piena di domeniche post-sbronza, forse nel pop-rock di "La lavatrice e il muro" si prova a mettere la testa a posto interrogandoci se ci sia un lavoro possibilmente riposante per vivere felicemente. La risposta sembrerebbe essere "fare il cantante", ma la vita continuerà sempre ad avere quel sapore spontaneo e fortunatamente divertente espresso nel disco con delle piccole verità cosmiche che vanno dallo scostante "uso le scale quasi sempre per/non incontrare gente in ascensore" al "fare la spesa e poi rimpiangere/il pane a fette che già si è indurito". Niente di più facile che vi ritroviate a canticchiarle mentre passeggiate per casa.
Ma la vita di Babalot non è tutta rosa e fiori: in "Festa n.3" ci racconta con un tono tra dei Nirvana degradati e un Silvestri più spento anche i suoi party in situazioni amare tra donne e amici che non lo capiscono, fino a chiedersi in "Forse una donna" (similmente a Dente) se sia una donna la risposta che cerchiamo per capire tutto quanto. Continuando scopriamo canzoni dallo spirito molto radiofonico, che ci ritroveremo a canticchiare, ma amaramente, come "Panca Bestia", caratterizzata dalla sovrapposizione tra chitarre classiche molto morbide che accompagnano i momenti più melodici e stacchi space-electro un po' Subsonica, con bassi diafani e amari che riflettono tutta l'inadeguatezza che sentiamo nei momenti più inspiegabili.
Ma la canzone dove si toccano delle punte di lirismo domestico e dolori veramente vissuti è il folk puro di "Schifo": si sente tutta l'incertezza e l'inquietudine dell'autore che raccontandoci le sue paure in realtà sta già riflettendo le nostre. La comunicazione e l'intesa tra l'ascoltatore e il musicista è spontanea, ognuno di noi può vederci piccole insoddisfazioni e ragazzate di gioventù o una situazione più complessa che si ritrova a vivere ultimamente. Questa è la sua forza: intensa capacità di raccontare con pensieri laterali, pochi strumenti e uno spirito acuto, la quotidinità in gesti semplici e quasi scontati. Chiunque può ritrovarsi nelle spensierate atmosfere estive di "Ferie Mentali" o nelle perplessità notturne dei rapporti di coppia di "La Mantide", entrambe accompagnate da sottofondi accattivanti che sfociano nella new-wave quasi New Order. Come non si può sorridere al "Ferie Mentali per dire di no al colesterolo/al tonno in scatola, alla birra calda e alle Marlboro"? Ci sembra di riconoscerci, continuando a prometterci di fare a meno di fumare e bere birra la mattina presto, come già lo stesso Babalot ci aveva accennato in apertura.
E chi non vorrebbe avere la stessa donna di "Una cosa sola", un inno all'amore dai toni squisitamente primaverili, fino a vedere nella coppia appena formata un rapporto simile a quello che si può avere con il metadone? Ma la dipendenza forse finisce e il fatto che subito dopo segua "Ma che ti ho fatto" , una lenta ballata acustica scritta apposta per chiedere scusa a una tipa, ci fa già pensar male. Ma l'importante è che ogni cosa che affronta Babalot sia trattata con ironia e intelligenza, quasi a ricordare un primo Max Gazzè. La chiusura dell'album è data alla struggente "Morte di una medusa" in cui l'incedere di un acustico sembra affacciarsi a riassumere la sua vita tra gioie e dolori, con un orecchio rock per le cose più terrene e uno pop per quelle più leggere. Curiosa infine la ghost-track ironicamente intitolata "Lo Spettro" che, in una sorta di simpatico walzer radical-chic à la Battiato, ci svela la filosofia di questo vivere: acciacchi per il troppo stress, viaggi surreali tra monumenti famosi e romantici, tanta diffidenza e qualche sogno in fondo al cuor.
Babalot è un cantautore verace che corre diagonale tra lo svacco giovanile di chi ha tutta la vita davanti e l'inquietudine matura di chi ha messo su famiglia. "Che succede quando uno muore" è un disco da sentire se ci si vuole specchiare in una buona mezz'ora di musica e storie che vanno oltre i soliti preconcetti di contenuto e forma ma che giungono a stimolare il nostro lato più naif, per stupirci di vederci disegnare in faccia uno spontaneo sorriso disincantato.
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