R Recensione

8/10

Ballboy

Merry Christmas to the drunks, Merry Christmas to the lovers

I Ballboy sono tornati o, come loro stessi commentano sul proprio sito,sono “riemersi dall’ibernazione realizzando un mini-album di nuovissime canzoni”. In realtà “erano tornati”, perché MC risale al dicembre di due anni fa ma, mea culpa, il sottoscritto l’ha scoperto solo da poco; visto però che siamo nel bel mezzo delle feste natalizie una recensione di questo piccolo grande gioiellino – acquistabile solo tramite download – appare più che giustificabile.

Per chi si era perso le puntate precedenti i Ballboy erano (sono?) una band scozzese, di Edinburgo, interprete, nel corso del primo decennio di questo millennio, di un entusiasmante indie pop che, ad opinione di chi scrive ha rappresentato la più valida eredità dell’esperienza musicale di Belle and Sebastian. In particolare nel 2008 avevano rilasciato un’opera straordinaria “I worked on the ships(recensita su questo stesso sito) purtroppo non apprezzata quanto avrebbe meritato, ma che lasciava intuire sviluppi promettentissimi per il futuro, grazie soprattutto alle indiscutibili capacità artistiche del leader Gordon McIntyre. E invece silenzio. Cinque anni (ma, come detto. per me sette!!) di vuoto che non lasciavano adito a dubbi sulle sorti del gruppo. E poi la sorpresa. Bella e brutta insieme, perché i Ballboy avevano fatto qualcosa di nuovo e di qualità straordinaria, ma anche la consapevolezza che da allora sono passati due anni di ulteriore oblio e, con esso, il sospetto che i 6 brani che compongono MC siano destinati a rimanere episodio splendidamente isolato.

Ascoltando MC l’idea che esso possa non avere un seguito è irritante e frustrante. I Ballboy attraverso melodie semplici e immediate, pochi strumenti per lo più acustici, arrangiamenti minimali, testi evocativi e mai banali hanno raggiunto una sorta di “classicità”, una purezza di forme invidiabile. Sospesi in magico equilibrio fra le nebbiose pioviggini delle highlands e le ampie pianure del midwest (I lost you, but I found country music cantavano in uno dei loro primi album), fra desolazione e redenzione, i Ballboy si muovono sul filo del sentimento senza essere sentimentali, sul filo della malinconia senza essere stucchevoli e sanno stemperare la dolcezza della musica con l’amara ironia dei versi. Il Natale che ci presentano non potrebbe essere più lontano da tanti luoghi comuni, non c’è in MC alcunché che possa far sospettare di qualche operazione furbetta, esibita allo scopo di sfruttare l’occasione festiva per arrotondare gli incassi. Emerge al contrario una religiosità sofferta, attenta ai chiaroscuri del cuore e non dimentica di chi vive al limite della zona d’ombra; si parla di persone che pur nella sconfitta continuano a cercare ancora  un po’ di luce e, al contrario di altre che anche nel momento in cui la pace sembra finalmente arrivare non possono cancellare le ferite dell’anima. Già la titletrack, che apre il mini album è programmatica, la nenia acustica di “Merry Christmas for drunks, merry Christmas for lovers” fra british folk e altcountry ci proietta in una dimensione in cui peccato e salvezza sono inscindibilmente correlati (“The mistakes of past, the mistakes of the past 

Can lie buried for Christmas”) e dove amore e dannazione possono tranquillamente convivere (“ Merry Christmas to the drunken lovers Merry Christmas, Merry Christmas To us”) . La dolente “East Coast” è tutta incentrata sul giro di chitarra acustica e sull’intrecciarsi delle voci di Gordon e di Lucy Pringle, secondo uno schema già caro a Belle e Sebastian con i duetti di Stuart Murdoch e Isobel Campbell, pronta a seminare nuove incertezze nell’ascoltatore (“Half the world is on its knees and waiting for the light The other half is tooled up And spoiling for a fight “). Nella diafana e rarefatta atmosfera di “Pray for murders” indie pop e gospel si incontrano mentre chitarra, pianoforte e le voci di Gordon e di Alexa Morrison (la tastierista della band) ci portano al ricordo dell’attrazione per il lato oscuro (“I was young omce, I was seduced by the rebellion of you”). Il breve quadretto malinconico di “Edinburgh” e “The National Trust”  strutturata secondo più consuete traiettorie pop ci parlano di perdite, di partenze e forse anche di suicidi. Il finale è affidato alla splendida e struggente “Winter boots” arricchita da tastiere, violino e, finalmente, una batteria che nel suo incedere rimanda alle tipiche ballate dei Velvet Underground più soft o dei Go-Betweens, una canzone dal dirompente lirismo romantico (“They remind me that I am home when I’m with you”) ma che non riesce a placarci completamente (“And I have places I should be, quiet mountainsides, friends at home, things I need, But there are things I just can’t see, anymore anymore”).

Buon Natale agli ubriachi, buon Natale agli amanti.

 

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