Cat Power
Moonpix
“Il suo miagolio si percepisce appena / tanto il suo timbro è tenero e discreto / (…) Questa voce che a goccia a goccia s’insinua / nel mio intimo più tenebroso / mi appaga come il ritmo d’un verso / e mi rallegra come un magico filtro” (Charles Baudelaire)
I gatti sono schivi, per natura diffidenti, sono superbi, capricciosi, sognatori, difficili da comprendere. Non rivelano mai del tutto se stessi, tranne che ad alcuni: i loro prediletti. Forse, sostengono costoro, esistono due strade soltanto per sfuggire alle miserie della vita: i gatti e la musica. Forse. Per certo sappiamo che Chan Marshall, la reginetta bohemienne della canzone americana, non poteva scegliere un suggello più veritiero alla propria arte. Ne modo più astuto per giocare a nascondino con un pubblico che, di anno in anno, si fa più vasto e variegato. La sua musica è serica, affusolata, soffice e discreta nel nome della divina bestiola che l’accompagna e in essa sa celare artigli ed asperità, può osservare silenzi misteriosi o parlarti con tremula, ipnotica confidenza. È ombrosa, volubile, affascinante.
Il retaggio è quello scarno e sferzante dell’indie newyorkese: nei pressi, il patrocinio di Steve Shelley, lo sbiadito miraggio di Patti Smith (e l’ombra noir di Lydia Lunch), in lontananza; lacerti centrifughi che vacillano al rintocco d’una psiche scossa ed arresa come quella di Sinead O’Connor o di Lisa Germano, con più malinconia e meno autoflagellazione. Arduo è per il cronista testimoniare come da un contralto così poco dotato, un po’ afono, impastato di sonno e di tristezza, possano germogliare corolle di note tanto profonde e commoventi. Gli accompagnamenti, in genere, sono una tela di Penelope che la Cat fa e disfa a suo piacimento, un gomitolo di armonie con cui giochicchiare, ritmi appena accennati che scompaiono e riaffiorano nei flussi e riflussi della sua felina concezione del tempo. Moonpix è uno dei vertici della sua scostante genialità, l’epicentro di una trilogia (con What the community would think, 1996, e You are free, 2003) che la condurrà, passo dopo passo, dallo spartano picking di Nick Drake all’art-folk di Tim Buckley, da Smog a Laura Nyro e Nico, prima del “buen retiro” sui caldi lidi country-soul di The Greatest (2006).
American Flag si stira pigramente sui beat lunghi, la melodia (sonn)a(m)bulica della Cat, progressivamente erosa da fuzz e feedback, sembra incresparsi lungo la linea d’un orizzonte asintotico (nonostante il pezzo duri soltanto 3’ e 30’’). Poi He turns down inanella i suoi tre accordi preferiti (eseguiti da Mick Turner dei Dirty Three con un picking quasi country), una piccola collana di sogni infanti, un flauto traverso duetta con lei e disegna una sorta di cerchio druidico attorno ai vocalizzi laconici ed avviliti.
In architettura sarebbe pieno su vuoto, metricamente, il tenue tamburellio di cinque dita su una cassa vuota. No sense è un valzer da fiera campestre suonato con la vitrea, ferale fissità d’una cinepresa rivolta contro il muro; Cat intona la livida passione d’una speleologa d’emozioni. Say (inquietanti quei tuoni in sottfondo) e Back of your head (che è il ritratto di uno spacciatore) sono cantilene quasi zen che galleggiano su un arpeggio vibrato ed etereo; a Metal heart bastano pochi gorgheggi per dissipare la languida foschia psichedelica d’un concerto per rullante, timpani e chitarra; Moonshiner osserva i cicli lunari attraverso una lente anamorfica offuscata da un alito di blues (e la Cat che inalbera una delle sue interpretazioni più memorabili nei panni di uno stanco contrabbandiere di whisky).
Le ruvide “pennate” di You mai know him trasformano la cantata in soliloquio acustico; Colour and the kids è un lussureggiante lieder pianistico, forse l’elogio poetico più struggente dell’intero album (per quanto i testi rimangano il suo tallone d’Achille). In Cross bone story le radici del salice piangente su cui la Cat affila le unghie (poliritmie, picking a punto-croce e delay vocale) serpeggiano fino alle brughiere folk-prog di un Van Morrison o dei Traffic, mentre la spoglia Perking saint stormisce una nenia di sempreverdi foglie celtiche.
I gatti riconoscono a pelle chi gli è amico da chi non lo è, ma la cosa non li induce minimamente a cambiare il loro atteggiamento nei confronti degli uni o degli altri. A noi dispiace davvero per i suoi nemici, ma musicalmente parlando, dal 1998 Cat Power ha pochi eguali.
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