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R Recensione

7/10

Efterklang

Magic Chairs

Mettiamola così. Io scrivo un disco, “Parades”, un bel disco, anzi: ottimo. Lo riempio di cori, muri di suono (ma non troppo shoegaze, diciamo più un bell’impasto spectoriano), archi, glitch, Sigur Rós e altre passioni orchestrali che lo ibridano e lo ghiacciano per bene. Ne ho tutto il diritto: non raggiungerò le vette artiche di Jón Þor Birgisson e compagni, ma pure io vengo dalla Danimarca. La formula piace e convince così tanto da mettere d’accordo, manifestamente, critica e pubblico (mica incido per niente, no?): c’è chi, addirittura, si tappa le orecchie sulla definizione di folk pastorale, forse la più idonea di tutte, e propone un improbabile “orchestrated experimental pop”. Eh? Dovrei ancora capire cosa vuol dire. Vabbè, non è importante. L’anno scorso lo riascoltavo, “Parades”. Ci vorrebbe un tocco più marcato da questa parte, pensavo, un’aggiustatina di qua, una sistemata generale al mood del disco, un’impronta più ariosa: perché non convocare, che so, la Danish National Chamber Orchestra e riassettarne come si deve le coordinate? L’ho fatto. Si chiama “Playing Parades”, è un cd + dvd, è carino ma non indispensabile. Un’ancorata decisa al mio stile, in ogni caso.

Come la prendereste, ora, se per il mio prossimo lavoro decidessi di abbandonare per un po’ i luccichii del mestiere e cominciassi a porgere l’orecchio al ritmo e alla quadratura dei 4/4? Trascurassi di più il contorno e mi dedicassi ad una granitica linea pop, incurante del rimescolamento genico che sboccia, spontaneo, tra le influenze dei miei pezzi? Immaginate: un cafechantant nordico che non rinuncia al singolo dalla facile presa. Vade retro! Lo sospettavo… Il fatto è che la paura di doversi ripetere, ad ogni costo, ha un peso specifico maggiore di qualsiasi altra variabile. Bando ai cliché: si può essere innovativi nel cambiamento, senza stravolgere per forza il proprio metodo.

Delle armonie tridimensionali e sofisticate. Le sedie magiche su cui siedono gli Efterklang sono postazioni donde dirigere un flusso melodico cangiante, a tratti beefheartiano nel suo non aderire completamente ad un solo registro ma, anzi, nel comprendere decine di scritture diverse. Se è vero che la costante onirica e favolistica scema, inevitabilmente, a favore di un pugno di canzoni meno levitanti e più concrete, è altresì inevitabile, ben presto, fare l’affannosa conta delle citazioni e i conti con la nuova direzione intrapresa dal quartetto scandinavo. Un’esplosione di colori che sovverte la rigida gerarchia delle severe squadrature della concezione pop tradizionale, stradario inaugurato tempo addietro dagli Architecture In Helsinki (filone presto degenerato per la confusione di ruoli tra l’anarco-pop e le canzoncine da asilo) e collegatosi con continuità nella folktronica di casa Mùm. L’approccio è artigianale ma professionale, casareccio eppure sbalzato: dietro la manifattura si nasconde lo studio.

La varietà del pacchetto è, peraltro, subito testimoniata. Agli adamantini passi di danza dell’opener “Modern Drift”, ovvero ciò che i Coldplay vorrebbero avere in casa propria con meno pastoie radiofoniche, si susseguono prima il leggero funk elettronico di “Harmonics”, girotondo p(r)estato al dancefloor con un che dei These New Puritans, poi l’operetta “Full Moon”, svolazzante taglio pindarico con archi a percuotere più della drum machine. Vi è un che di tautologico, onnivoro e, perché no, confusionario assieme, nelle nuove canzoni degli Efterklang. A volte il bandolo della matassa si perde, vuoi per scostanti vampate di pirotecnia poco legate fra di loro (“Mirror Mirror”, ad esempio: i My Latest Novel che travolgono i Grandaddy e le ultime istanze del chamber), vuoi perché il filo non è mai esistito (“Scandinavian Love”: gli Abba alle prese con l’elettro pop?). C’è più soddisfazione che altro, tuttavia, nel tenere a bada le cascate pianistiche di un improbabile two-step cabarettistico sulla falsariga del cantautorato wrightiano (“I Was Playing Drums”) o l’enfasi degli Arcade Fire rivoltata in un contesto cameristico, tremulo, vagamente post rock (“The Soft Beating”).

Non semplice, non aperto a tutti, non immediato da memorizzare, difficilmente canticchiabile: ecce pop. Quello che più ci piace, che lotta contro sé stesso per preservarsi. Non siamo ancora al top delle possibilità, ma presto lo sviluppo sarà impetuoso.

 

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Voto degli utenti: 6,3/10 in media su 4 voti.
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mavsi 8/10

C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Filippo Maradei alle 13:12 del 19 luglio 2010 ha scritto:

Pare piuttosto carino. Prima di recuperarlo, però, preferirei rinfrescarmi la memoria con "Parades", che non ho mai ascoltato fino in fondo, quasi sempre in maniera random-sporadica...

Filippo Maradei alle 13:13 del 19 luglio 2010 ha scritto:

Ah già: recensione pulita, precisa e piacevole

hiperwlt (ha votato 5 questo disco) alle 15:52 del 19 luglio 2010 ha scritto:

prendo nota!