R Recensione

3/10

Grand Archives

The Grand Archives

Nel panorama indie c’era un certa attesa per l’esordio dei Grand Archives, il progetto parallelo di Matt Brooke (Band of Horses). Chi scrive ha saputo apprezzare in maniera forse minore rispetto alla media dei critici i due dischi (Everytime all the time e Cease to begin) che hanno lanciato Brooke nel panorama indie, tuttavia il suo pop-rock che viaggiava tra Shins, Flaming Lips e Neil Young era certo abbastanza godibile da incuriosire quanto bastava per andare a caccia di questo debutto omonimo.

Altro giro, altro gaudio? Purtroppo no, perchè a quanto pare il delicato equilibrio che teneva in piedi i Band of Horses, ossia quella miscela di chitarre graffianti, pop trascinante e accenni di country elettrico, va a schiantarsi inesorabilmente in un mare di melassa tremendamente appiccicosa. Ne viene fuori che la moderata varietà compositiva è stata abbandonata a favore di un pop stucchevole e inconsistente di remota origine 60s. Quella che era una più che rispettabile voce diventa un cantato lamentoso e smieloso che mette a dura prova la pazienza dell’ascoltatore.

A cercare di parlarne bene verrebbe da dire che Grand Archives è un disco solare, gioioso, estivo e disimpegnato, dalle melodie semplici e spensierate. Quello che però voleva essere un tentativo di imitare Shins e (soprattutto) Beach Boys diventa una rovinosa caduta in verticale che precipita i Grand Archives sul livello di gente come i Jet, i Thrills, i tardi Coral, e volendo anche gli stucchevoli Clientele.

E non che poi sia tutto da buttare via in fondo: Torn blue foam couch dopo un inizio stentato sfrutta una bella accelerazione mentre Index moon gode di una parte strumentale decente ma è resa insopportabile dal buonismo di quel “sunny day” ripetuto ossessivamente nel ritornello. George Kaminski ha un’ottima grande idea di tornare su toni melancolico-elegiaci in un’andatura tra Neil Young e Iron and Wine, però non si sforza di fare altro. Lo strumentale Breezy no breezy non sfigurerebbe in un album di Tom Waits o dell’ultimo Iron and Wine mentre Sleepdriving, probabilmente il brano migliore, trova la sua compiutezza in un pop malinconico che saprà anche di già sentito (molto Coldplay ma non solo), ma che perlomeno mostra un pizzico di eleganza e classe. The crime window poi riporta addirittura in auge un ritmo più tirato con il suo power-pop spigliato.

Se però finora si è parlato di brani discreti o mediocri il resto purtroppo è molto peggio: che vi siano ouvertures dylaniane (Miniature birds) o spunti country-pop elettrici (Swan matches) si va sempre a cadere in ritornelli e coretti “la-la-la” impalpabili e senza nerbo (A setting sun, Louis Riel, Orange juice) ascoltando i quali si fa davvero fatica a trattenere lo sbadiglio sempre in agguato.

In attesa di verificare le capacità di Brooke con le prossime prove discografiche il consiglio è allora quantomeno quello di procurarsi un buon cuscino.

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