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R Recensione

6/10

I'm From Barcelona

27 Songs From Barcelona

La rivincita dei nerd, parte 3. Anzi, meglio ancora: A.A.A. indie-poppers militanti (ri)cercasi. Stavo cercando uno slogan giusto per pubblicizzare questa pagina, ma forse non è questo il modo per parlare degli I’m From Barcelona. Può essere, anzi, che il pubblico addetto già si sia scordato di loro. D’altra parte, si sa, le stranezze particolarmente eccentriche tirano solo per un giro. In questo caso, le canzoncine elementari e corali di “Let Me Introduce My Friends”, che li avevano fatti conoscere in giro per il mondo, me compreso. E se si fossero davvero presentati, questi amici? Ventisette tra uomini e donne, occhialuti e freak, aspiranti musicisti, aspiranti cantanti e aspiranti e basta. Un collettivo multicolore inabissatosi, peraltro ingloriosamente, sia in termini di hype che in quelli più strettamente qualitativi, con la caporetto di due anni orsono, un “Who Killed Harry Houdini?” così brutto, vacuo ed inconsistente da non parer vero. Da mettere istantaneo timore all’immediato apparire di anche una sola faccia di un qualsivoglia membro della combriccola, laddove prima la reazione istantanea sarebbe stata di allegria contagiosa, specchio delle cinguettanti melodie catturate dai (larghi) palchi di mezza Europa.

Ora, che non c’è più nulla da perdere, ma tutto da guadagnare (mi sembra di parlare della Juventus, maledizione) gli I’m From Barcelona perdono il connotato definito di gruppo da sempre riunito attorno alla mente pensante di Emanuel Lundgren, cantante e chitarrista, per partorire un bignami degno di tal nome. Le “27 Songs From Barcelona” sono, infatti, singola e soggettiva espressione compositiva di ogni componente: canzoni indipendenti l’una dall’altra, dove l’ego di ciascuno è libero di emergere secondo la direzione musicale che più gli si confà, senza limiti di genere, disponibili a intervalli regolari sul loro sito ufficiale e rilasciate tutte assieme, successivamente, in un elegante triplo vinile che sa di azzardo d’altri tempi. Ventisette canzoni che approfondiscono, in maniera mai così definitiva, non solo la validità complessiva ed il senso stesso di un’operazione come questa, ma anche la solidità effettiva del movimento indie pop alla luce di un nuovo decennio chiave. In altri termini, dove effettivamente le fondamenta e dove, invece, la sopravvalutazione a priori.

Sostenitore, sin dalla culla, dell’importanza di curare il dettaglio, ricevo un’importante conferma. Servirà ricordarsi che, come gli svampiti colleghi Architecture In Helsinki (di cui riprendono sembianze nel bel twee di “Baby Let’s Go”), l’abito non fa il monaco ed il monicker non fa la nazionalità: niente andalusi in siesta e madrilene accattivanti, il collettivo proviene, rigorosamente in blocco, dalla scandinava Jönköping, Svezia. Tutto questo bipartisce già il triplo, con una buona approssimazione: da una parte i pezzi alla Abba, dall’altra il recupero dell’electro pop in rinascita nell’ultimo triennio. Pur a naso, abbiamo già sviscerato correttamente le due principali spine dorsali della raccolta, a sottolineare come gli I’m From Barcelona non siano già più, da tempo, così imprevedibili. E neppure efficaci. Passino le giostrine dance come “UHOH”, gli ibridi come l’iniziale “Lower My Head” (con la drum machine che ruba il ritmo a “Farewell To The Fairground” dei White Lies) o il tono da taiga sintetica di “Hej Hej Ivar”, ma quando esce in superficie il tanto vituperato amore per gli Eighties il gioco precipita in vette di sconsolata cupezza (l’eurodisco di “Be The Same” è tremendo!), con un cincischio inutile e sterile su sostrati già mediocri di loro (il synth-pop da nosocomio di “Pet Duet”, la pessima accelerata di “Tour De France”, il noioso nonsense di “Zapatista”, i tribalismi poco a fuoco dell’altrimenti interessante “The Wave”).

Stentano a decollare persino molte delle canzoni più propriamente pop, molte delle quali declinate in veste acustica o spogliate, in ogni caso, della maggior parte degli orpelli. Nascono così “Best Days Are To Come”, costruita su un classico, malinconico incastro di arpeggi, l’intermezzo Sixties “But Hey Even Though Your Horses Went Away”, il country classico di “Sick Of Love” e quello più vicino a Micah P. Hinson di “Make Me A Cowboy Again For A Day”, la sguaiatissima “To The Clouds”, da cantare in caso di falò estremamente esteso, o ancora le armonie alla Fleet Foxes, scolpite a fuoco nella roccia, di “Matilda”. Eppure il livello non si schioda: siamo dalle parti del discreto, dell’apprezzabile, qualche volta vicini al più che buono, nulla che faccia però gridare al miracolo. Ascolto certo non impegnativo, vista l’estrema leggerezza del pulviscolo materico abbondantemente sparso nell’aria, ma in taluni frangenti, se non altro, noioso. Lundgren appare, come autore, nella sola “Hang On”, ballata completamente insipida, cartina al tornasole del pessimo stato di conservazione di una delle ex migliori promesse del nuovo pop made in 2000.

Ma che l’anarchia regni sovrana, oltre alla conferma del definitivo declino di quello che era il loro songwriter di riferimento, è ben riportato da almeno quattro episodi diversi, lontanissimi dalle coordinate di partenza degli I’m From Barcelona e capaci di ergersi, senza nemmeno troppa fatica, a baluardi del lavoro. Partiamo dal basso: “Kosmonaut” è lavorio wave – con vocoder - in profondità spacey, kraut sintetizzato semistrumentale efficacemente proiettato sugli avamposti già occupati dagli Spider And The Flies. “My BPM Might Be Off, But My Heart Is Running Like A Clock” atterra con una dose di chitarre francamente impensata (ed impensabile), sei minuti di cupa ed epica corsa alla Cloud Cult, con un ipercinetico crescendo grunge verso il nulla. Si fa davvero fatica a ricondurre pezzi del genere ad una matrice comune, specie quella poi presa in questione, eppure siamo ancora all’inizio: “Alice In Wonderland”, pianoforte e rullante appena solleticato, è sublime eleganza dixieland incastrata tra polipi armonici di notevole spessore. “Silence”, infine, apre un considerevole squarcio su possibili evoluzioni future, con il suo shoegaze tridimensionale d’andatura spettrale.

L’operazione, non se ne dubiti, è onesta ed esagerata quanto basta per lasciarsi ammaliare. L’ora per una diversa ridistribuzione dei ruoli, dentro l’economia del collettivo, è finalmente giunta. I risultati, però, eccetto qualche colpo di assoluto genio, latitano. C’era un ragazzo che come me amava gli I’m From Barcelona: basterebbe così poco per farmi riaffezionare…

 

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C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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target (ha votato 5 questo disco) alle 13:57 del 15 aprile 2010 ha scritto:

Marco, che dire. Ormai li ascoltiamo solo noi due, pare. Il progetto di questo iper-disco di 27 canzoni è interessante, anche perché offre una panoramica (per quanto limitata al 'collettivo' I'm from barcelona) sulla scena indie pop svedese che qualcosa di nuovo potrebbe dire (si sa che dalla scandinavia viene una buona fetta dell'indie pop migliore). Rovistando, qualche indicazione gustosa la si trova (concordo du quasi tutti i nomi che fai tu: "Lower my head", "Silence", "My bpm...", "Matilda", "Kosmonaut", "Baby let's go"), ma in mezzo a un mare di merda. E dispiace che Lundgren sguazzi in quest'ultima: se davvero quella ballata scialbissima è il pezzo migliore che ha composto negli ultimi due anni, allora vuol dire che nel primo disco aveva un ghost-writer... Ecco, diciamo che il disco può essere di stimolo per coloro, tra i 27, che sono più dotati, un incoraggiamento a uscire dal guscio del collettivo e a mettersi in proprio. Non ci vedo, sinceramente, altro pregio.

salvatore (ha votato 5 questo disco) alle 14:29 del 18 aprile 2010 ha scritto:

Da sbadiglio... confesso però che nemmeno "let me ..." mi aveva esaltato. Troppo corali, troppo festaioli, troppo insulsi. Qualche bella melodia c'è, ma è veramente poca cosa.