V Video

R Recensione

6/10

I'm From Barcelona

Forever Today

Mi fossi trovato Emanuel Lundgren, un anno fa, a suonare per i cantoni di una città x qualunque a latitudine y e longitudine z, gli avrei offerto da bere e avrei consigliato, a lui e agli altri ventisei squinternati che si porta dietro, la visione di un bel film escatologico. Che ne so, Fuga per la vittoria. Oppure, un po’ meno serio, Prendi i soldi e scappa. No, no, sentite: Mission. Così dietro, oltre al promemoria esplicito di permettere ai musicisti più bravi ed estrosi del collettivo I’m From Barcelona la possibilità di sfuggire dal pantano di vuotezza artistica piombato addosso da “Who Killed Harry Houdini?” in poi, si sarebbe potuto leggere anche un altro consiglio, molto più implicito: riprendetevi un messaggio. Tornate a comunicare qualcosa. Piantatela di fare i coglioni per status quo e cercate di riassettare le coordinate di un indie pop grossomodo passabile, visto che da voi non ci si aspettano particolari sofismi intellettuali. Mi avrebbe guardato stordito? Avrebbe capito qualcosa del mio anglo-veneto smozzicato in fretta e furia? Avrebbe mollato la pina colada improvvisando un beatbox su base anni ’80? Solleticate la vostra particolare fantasia con ciò che volete. Perché ora, sostanzialmente, discuteremo del recupero in zona Cesarini di un gruppo ormai bello che perduto nelle menti di mezza (mezza?) critica musicale.

Baffuto e rossocrinito come la peggiore proiezione nerd da voi mai immaginata nel corso della vostra vita, Lundgren abbandona il decentramento del precedente “27 Songs From Barcelona”, spropositato esperimento e tentativo estremo di rilanciare una carriera compromessa con pieno imprimatur ad ogni membro della band – rischiando, nel contempo, una figuraccia egli stesso – e riduce il nocciolo dell’argomento all’osso, tornando ad trasmettere come dominante la propria voce in capitolo all’interno dell’economia del collettivo. “Forever Today” è, dunque, di primo acchito, una forte riaffermazione personale. Lo spasmodico desiderio di ritornare alle fonti dell’esordio, quando il complesso era bipartibile in lui – tutti gli altri. Non quella che si dice una carineria verso i propri compagni, alcuni dei quali dimostratisi peraltro, professionalmente parlando, decisamente più interessanti. Tuttavia, il triplo salto carpiato all’indietro ha un suo senso. Anzitutto, perché la ritrovata coesione tra le varie componenti – quella più dance, la frangia rock, il manipolo legato al folk, gli inguaribili amanti delle torch songs – permette la stesura di canzoni essenziali, fresche, d’impatto. Inevitabilmente pensato per una fruizione ampia ed immediata (mezz'ora appena in totale), il disco gira attorno al cadavere di certo smielato modo di pensare l’indie e ne fotografa le parti migliori, lavorando ottimamente di sintesi e furbizia.

Probabilmente risulterà forzato anche quest’altro estremo, la ricerca della solarità sopra ogni cosa, laddove invece lo zibaldone precedente – pur nella sua fragilità e nel trionfo di difetti che lo accompagnava – lasciava intravedere oscurità niente male. Dall’inconfondibile twee d’apertura di “Charlie Parker” (Loney, Dear con batteria elettronica) sino allo struggente lento della title track, è infatti un tripudio di cori, strumentazione, motivi elementari in sovrapposizione. Per qualche istante, specialmente quando irrompe sulla scena la tromba, si ritorna con la mente a certi, vecchi Architecture In Helsinki: impressione fugata dalla certezza oggettiva della non paragonabilità artistica dei due termini. I pezzi, intanto, rimangono. Ed alcuni sono anche particolarmente riusciti, come la malinconia yè-yè di “Always Spring” che butta in mezzo alla caciara i Belle & Sebastian più umorali, il diretto richiamo di “Come On” agli esordi fumettosi, l’inno esistenziale “Get In Line” interamente incernierato sulla fascinazione per il sintetico anni ’80 (v’è qualcosa, alla lontana, dei Saint Etienne) e la più elaborata “Game Is On”, piccolo musical in crescendo con un pregevole e sottile sfumato di fiati.

Niente più di questo. Ma, se permettete, visto che veniva a mancare anche il minimo sindacale, è già un discreto passo avanti.

V Voti

Voto degli utenti: 6,3/10 in media su 3 voti.
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target 6/10
ciccio 7/10

C Commenti

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Charisteas (ha votato 6 questo disco) alle 19:16 del primo giugno 2011 ha scritto:

Nulla togliere a loro e a questo onesto disco, ma forse è la forma - collettivo ad essersi fossilizzata, non dando più grossi spazi di spunto.

target (ha votato 6 questo disco) alle 19:27 del 8 luglio 2011 ha scritto:

Disco onesto, sì, certamente un ritorno alla forma dopo l'abisso di "Houdini". Ormai si è capito che questo, su disco, è il massimo che gli si può chiedere: mezz'ore spensierate di pezzi tanto immediati e solari quanto facilmente dimenticabili. Indie pop al livello più diretto, e meno elaborato (sono canzoni davvero pane-e-salame, tre accordi, un riff melodico, ritornello catchy e via; apprezzabile, in più, l'uso dei fiati). Credo che la loro dimensione sia piuttosto quella live. A proposito, Marco: mercoledì a Padova ci vai a sentirli?

Marco_Biasio, autore, alle 20:28 del 8 luglio 2011 ha scritto:

RE:

Mmm, non saprei. Non sono più da tempo una delle mie band preferite. Ma mai dire mai. Se vado lo saprai

salvatore alle 13:53 del 10 luglio 2011 ha scritto:

A me non piacevano nemmeno quando erano in forma. Troppo festaiol/superficiali. La festa mi sta bene, ma bisogna problematizzarla un po' altrimenti che festa è con tutta gente felice che beve birra e balla?

Questo non l'ho ascoltato e difficilmente lo farò...