Islands
Vapours
I cocci degli Unicorns hanno concluso quest’anno di ricomporsi con l’avvento sul mercato dell’ottimo esordio dei Clues (Clues, Constellation, 2009), che ci ha riconsegnato un Alden “Ginger” Penner, il “cavallo cornuto” di cui si erano perse le tracce, ispirato ed in grandissima forma. A certificare il fatto che quello, gli Unicorns, fosse davvero un gran gruppo, anche se lo si è detto dopo un unico, debordante album, mancava solo quest’ultima prova: ebbene sì, adesso lo possiamo dire, anche Alden, oltre a Nick “Diamonds” Thorburn, era ed è un maledetto geniaccio. E forse è proprio per questo che subito dopo il primo lavoro si divisero. Alden da una parte, a farsi sei anni di benedetti fatti suoi, ricercando la forma più consona da dare alla sua obliqua musicalità, Nick e Jamie Thompson (batterista) dall’altra, a formare prima i Th’ Corn Gangg e poi subito gli Islands, guidati da un gusto pop decisamente più classico, meno originale e tuttavia, oggettivamente parlando, non meno efficace. L’ esordio degli Islands, Return To The Sea (Rough Trade, 2005), ancora oggi echeggia entusiasticamente nelle orecchie di molti appassionati, con quell’atmosfera estiva da vacanze, rinfrescata da avventati ma centratissimi scrosci di hip-hop, che forniva l’ideale colonna sonora per una fuga dal quotidiano.
A quell’esordio fulminante (e dopo la dipartita di Thompson) ha fatto seguito lo scorso anno il controverso Arm’s way, in parte incapace di confermare le aspettative che sulla band si erano venute a creare. Al di là di un effettiva deviazione verso lidi più “oscuri”, tradotti musicalmente in una maggior tendenza all’epicità ed agli stilemi del progressive (specialmente per il carattere barocco degli arrangiamenti, spesso incentrati su sfarzose stratificazioni di archi), sono proprio la freschezza e la spontaneità a venire meno, come se un’ombra di razionale (e un po’ forzata) intelligenza avesse oscurato la primordiale lucida follia. Una considerazione di questo tipo non esclude il fatto che Arm’s Way fosse comunque un buon disco, in parte buonissimo, in generale abbastanza buono da confermare, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il talento cristallino di Nicholas Thorburn è concreto ed effettivo.
Oggi, a solo un anno di distanza, arriva il terzo lavoro per la formazione di Montreal e, insieme con il batterista Jamie Thompson, torna anche il bel tempo sulle isole. Verrebbe da dire che il merito sia suo, per quanto difficile sia ritenere un batterista responsabile di simili cambiamenti d’atmosfera, ma tant’è: sparite le orchestrazioni e gli eccessi teatralmente drammatici, Vapours ci riporta ai vecchi lidi, fra minimalismo e percussività, e poi ancora oltre, verso nuovi orizzonti che sgorgano dalla dance e dal funk di buona parte delle decadi passate. Il carattere “elettronico” del lavoro costituisce senz’altro la novità più evidente: uso massiccio di drum machines, synths, sequencers, perfino un sitar elettrico (nel singolo No You Don’t, dove cascate di note impreziosiscono un impianto scheletrico) stravolgono l’immagine degli Islands così come li conoscevamo, senza peraltro riuscire ad oscurarne la peculiare essenza creativa e, anzi, vivificandola. Al di là del pacchetto sintetico in cui è immerso, infatti, il disco si mantiene nel più genuino territorio del pop-rock. L’elemento di continuità con Arm’s way sta invece nella conferma e accentuazione ulteriore della scelta del formato canzone: non esiste in tutto il lavoro un brano seriamente strutturato, neppure all’interno dei brevi momenti strumentali. In 42 minuti gli Islands fanno stare dodici pezzi che durano mediamente i classici tre minuti che il meccanismo promozionale prevede. Nulla di male, certo, ma pensando agli Unicorns o ai Clues un po’ di malessere sale.
Il ruolo primario dell’elettronica è esibito in apertura: Switched On parte con un drumming massiccio, relativamente scomposto, infarcito di bizzose chitarrine funky (par di risentire Larry LaLonde dei Primus) che si incastrano dove serve. Il coro con cui entra la voce fa temere per un attimo che anche gli Islands siano precipitati nel gorgo del revival vocale oggi così in voga, quello che tanto ci ha dato con Animal Collective, Fleet Foxes o l’ultimo Grizzly Bear. Dubbio fugato in pochi secondi, il coro riempie un interstizio nel drumming e sparisce, lasciando però fino alla fine un’idea di anni ’50 confusa in un calderone di disco-funk e sintetizzatori. Il mix “libero” funziona ancora in No You Don’t, che si regge praticamente senza chitarre, in bilico fra anni ’80 e “house per tutti” alla Daft Punk e per il funk esplosivo ma romantico di Devoil, anch’esso asciugato come se provenisse da un locale berlinese.
A sostegno della validità della scelta del gruppo, i brani migliori dell’album sono anche quelli dove l’apporto dell’elettronica è più massiccio: l’oscurità di Shining, che ci consegna anche una performance vocale sulle migliori frequenze di Nick, gli eccessi sintetici di Heartreat, dove una bella melodia resiste al trattamento non troppo raffinato della voce, ma mal digerisce un ritornello non all’altezza, il reggae-funk funereo e pesantissimo di The Drums.
Il livello, pur mantenendosi sempre nei limiti della sufficienza piena, scende invece nei brani più tradizionali: la title track è indecisa in un limbo tra Strokes e Beatles; Disarming The Car Bomb mostra una certa confusione (pesante l’invadenza del riff distorto, davvero scontato, cui fa seguito un ritornello che sa tanto di “vorrei ma non posso”) e si salva più che altro per la chitarrina western nel mezzo; la successiva Tender Torture fa meglio, utilizzando ancora un riff pesante ma con migliori risultati ed esibendo un ritornello ultra-pop ma comunque ottimo (salvo l’”uh uh uh” in chiusura, da odio pieno, ma forse solo perché obbliga a pensare agli U2).
Val la pena citare anche On Foreigner, calda e avvolgente, che mischia ancora i ’50 con i Calexico e il beat, ed ha un ottimo momento nel finale che fa corpo unico con la successiva Heartreat. Ancora i Beatles, stavolta con Black Heart Procession, TV On The Radio e Beach Boys, per non citare i nostrani Yuppie Flu, che prepotentemente si affacciano nel ritornello, si incontrano nella marcia spensierata di Eol.
Riesce ancora a stupire la chiusura affidata a Everything Is Under Control. Il gruppo si addentra in territori prossimi al dream-pop, esplora e misura i limiti dello shoegaze, cresce fra richiami ai Sigur Ros ed al soul in falsetto di Bon Iver per andare a creare un classico finale lento, ossessivo ed epico, che è quel che tutti ci aspetteremmo alla fine di un concerto.
Concerto pop, naturalmente. Perché di musica smaccatamente pop stiamo parlando.
E qui sta la grandezza e forse il limite di Nicholas Thorburn e dei suoi Islands: ad un talento meraviglioso nel riassemblare standard di ogni tipo ed epoca in strutture che suonano sempre attuali, fresche ed equilibrate, si contrappone un certo limite nella personalità, così che è sempre molto facile ascoltandoli trovare gli elementi della loro ispirazione, per quanto questa possa spaziare nei generi e negli stili. L’abilità melodica di Nick, evidente nella naturalezza con cui disegna linee vocali spesso stupefacenti, è ogni tanto mortificata da una certa compiacenza verso la fruibilità di massa, che banalizza dolorosamente alcune valide intuizioni. Lo stesso discorso potremmo farlo a livello puramente sonoro: nonostante la godibilità dei suoni, davvero curati, sembra sempre mancare un carattere realmente unico e proprio. Sarà anche per questo che ogni nuovo disco degli Islands sconvolge il precedente.
Sentiremo probabilmente dire, fra tanti elogi, che manca il sangue e il sudore, che non c’è sofferenza e pazzia, che Vapours è un album un po’ plasticoso. Sarà anche vero, almeno in parte, ma resta che ci troviamo di fronte ad uno dei migliori gruppi che il Canada ci ha proposto in questi anni di protagonismo e ad un album che segna comunque un’evoluzione positiva, nella speranza che le potenzialità enormi, sempre ben più che intraviste, del gruppo possano regalarci prima o poi un disco di quelli da conservare a pieno titolo nel reparto “indimenticabili”.
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