Jens Lekman
I Know What Love Isn't
Ne è passato tanto, troppo di tempo dall’ultima volta. Cinque anni, per l’esattezza. Cinque lunghi anni di silenzio (Oh You're So Silent Jens), se non contiamo un singolo nel 2010 e l’ep dello scorso anno, quasi a dire: “Abbiate fede, ci sono ancora!”. Sembra che, nel frattempo, il genietto svedese Jens Lekman non se la sia passata affatto bene: una brutta malattia che sembrava non passare più, un blocco di ispirazione, un grande amore finito e una conseguente fuga in Australia, per allontanarsi dalla natia, gelida Svezia. Disperare, a questo punto, era lecito. Cosa ne sarebbe stato, dunque, del pop da cameretta, senza il suo più autorevole rappresentante? Perché questo è, oggi, Jens Lekman, senza “se” e senza “ma”.
Fortunatamente non siamo qui a dover rispondere a tale mesta domanda, quanto, piuttosto, a celebrare il suo ritorno che prende la forma di questo terzo album in studio, dal titolo tanto antiromantico, quanto ironico I Know What Love Isn't. E dire che dare un seguito a Night Falls Over Kortedala era un’impresa tutt’altro che facile, per usare un eufemismo, dato che lì erano state toccate vette di perfezione impensabili per tutti gli altri: scrittura, arrangiamenti, parole, tutto superava l’eccellenza. Un piccolo, grande capolavoro, insomma, che rendeva straordinaria la quotidianità. Le aspettative erano dunque altissime e, per una volta, non sono state deluse: vena creativa e forza espressiva sono sempre le stesse, chiariamolo subito. Certo, non bisogna aspettarsi quella ricchezza barocca che caratterizzava Kortedala; qui è tutto più contenuto, intimo, minimale, sebbene l’utilizzo dell’aggettivo minimale, per uno come Lekman, pare abbastanza improprio: violini, flauti e sassofoni continuano a mostrare la sua maestria nel colorare i brani, nel fornire loro un abito sempre diverso e appropriato, nonché la solita, meticolosa cura dei dettagli.
In compenso, l’album si fa forte di una coesione e di una solidità che mai era stata proposta in precedenza. Un concept album di moderno cantautorato, si potrebbe azzardare, sulla solitudine, sull’abbandono, sui cuori spezzati e sul saper prendere il tutto con leggerezza, perché è proprio la leggerezza la cifra stilistica dello svedese. La leggerezza, dunque, quelle tinte agrodolci che infonde ad ogni canzone, quei forti contrasti tra brii armonici e introspezione lirica, il senso dell’umorismo, questo suo non prendersi mai troppo sul serio che gli consente un certo distacco dalla materia trattata, impedendogli di sembrare troppo un disadattato, un piagnone. Ché poi un po’ piagnone lo è, diciamoci la verità, ma che male c’è? Mica ci divertiamo tutti ad attaccare lattine vuote alle code dei gatti, no? E poi Morrissey, Merritt, Murdoch, Lawrence… Insomma, è in buona compagnia!
Questo lavoro di relativa sottrazione non ha fatto, quindi, che mettere in risalto le doti di scrittura di Lekman e il suo inconfondibile gusto estetico. Cominciare, poi, con quell’intro di solo piano (Every Little Hair Knows Your Name), vuol dire partire col piede giusto. Una melodia semplice e tenue, un pianoforte accarezzato e massicce dosi di malinconia: il gioco è fatto e ci si trova presto invischiati. Un po’ meno convincente, appare il secondo brano – e singolo apripista – Erica America. La chitarra dal sapore quasi caraibico, il controcanto femminile un tantino lezioso e la melodia piuttosto incompiuta danno, nel complesso, la sensazione di compitino ben fatto e nulla di più, nonostante l’idea geniale di quel sax, quasi in chiusura di canzone, che ti trasporta in un fumoso night club metropolitano dei primi anni ’80. Incantevole è, invece, Become Someone Else’s che ti fa camminare a due metri da terra, con quel giro armonico di piano adagiato su battito elettronico, e rispolvera il gusto acerbo e la linearità gentile dell’esordio When I Said I Wanted To Be Your Dog, datato 2004. She Just Don't Want To Be With You Anymore e Some Dandruff On Your Shoulder, poi, mostrano, ancora una volta, il suo amore per Bacharach, per la sofisticatezza ed eleganza di un pop senza tempo che tanto deve al soul, alla Motown, alle estati che finiscono e agli struggimenti per amore. La prima metà dell’album è già finita, ma il meglio deve ancora venire. Così, tra una I Want A Pair Of Cowboy Boots – che in tre minuti scarsi di country-folk levigato, fonda il Neil Young di Harvest e la stramberia infantile, tutta polvere e whiskey, di un Jonathan Richman – e una disarmante Every Little Hair Knows Your Name – in cui un Lekman privo di qualsivoglia orpello, accompagnato dalla sola chitarra, si cimenta in un folk di grazia impalpabile che fa pensare ai primi bozzetti acustici di Simon & Garfunkel – troviamo, in scaletta, tre brani, paradigmatici della nuova estetica del disamore, che nobiliterebbero qualsiasi disco indiepop che si rispetti. Ecco, allora, The World Moves On, canzone che più di tutte si riallaccia agli umori barocchi di Kortedala, e la sua fantasia caleidoscopica, in un concentrato di intuizioni melodiche, cambi di ritmo e lucentezza armonica, con l’immancabile flauto a ingentilire il tutto. Passano sei minuti (ma come, non era appena iniziata?) e parte The End Of The World Is Bigger Than Love, singolo diffuso nel 2010, che trova solo adesso, per nostra fortuna, spazio su un disco. Due anni sono passati, ma la sua freschezza primaverile, l’orecchiabilissimo incedere concentrico e l’arrangiamento dal taglio vintage continuano a stupire. Come stupisce il piglio sbarazzino del cantante mentre recita: ”How a broken heart is not the end of the world, because the end of the world is bigger than love”. Così convincente che, quasi quasi, gli crediamo… Chiude la triade una I Know What Love Isn’t – non a caso scelta come secondo singolo dell’album – davvero irresistibile, con la dolcezza del glockenspiel iniziale, l’eleganza discreta degli archi e un ritornello che dovrebbe durare per l’eternità, se solo l’eternità esistesse.
Pur non raggiungendo gli apici del precedente Kortedala, ma assestandosi su livelli qualitativi quasi proibitivi, per quelli che, come lui, si confrontano, oggi, con la scrittura pop, questo nuovo lavoro mostra un autore che conferma tutto il suo talento e la sua classe cristallini. Degno erede dei vari Wilson, Walker o Johnston, Jens Lekman si è ritagliato una fama di culto, diventando un piccolo classico contemporaneo. A questo punto, saranno solo i prossimi lavori a decretarne la definitiva grandezza, dato che, ad oggi, passi falsi non ce ne sono stati.
Dovessimo aspettare anche 10 anni, piuttosto che 5, per il prossimo album, considerati i risultati, ne varrebbe comunque la pena.
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