Kings of Convenience
Quiet Is The New Loud
C'è una bellezza che disarma e un po' spaventa nei Kings of Convenience: è la semplicità di un ipnotico incanto, vissuto tra accordi acustici della consistenza dell'aria e una voce all'acqua di rose; la fortuna di Erlend Øye e Eirik Glambæk Bøe e del loro secondo album è tutta qui. Perché dovete sapere che "Quiet Is The New Loud" è uno di quei dischi che si potrebbe ascoltare all'infinito senza cedere un grammo alla stanchezza e un minuto alla noia. Ed è per questo che, a ragione, è considerato una delle vette più alte nella storia dell'indie-pop, oltre che loro massima espressione artistica.
Basterebbe prendere un attimo da parte "The Weight of My Words", manifesto-tutto per l'album – con i suoi arpeggi flessuosi, il delicatissimo ricamo di voci, l'entrata in punta di piedi del violino – o la sorella "The Girl From Back Then", appena più sostenuta nel ritmo, levigata da un pianoforte che saltella nel vento e un intreccio quasi mantrico delle voci, per rendersi subito conto di quali corde dell'emotività andranno a pizzicare i due norvegesi. E il loro è un trucco vecchio come il mondo ma di un'efficacia rara, capace di costruire melodie semplicemente perfette per richiamo armonico e contemporaneamente trasportare l'ascoltatore nelle stanzette degli innocenti pomeriggi di gioventù tra pipponi filmici mentali e trappole d'amore: pochi piccoli elementi, chitarre acustiche e voci, giochi d'incastri, capolini di trombetta al risveglio mattutino, tanto per dirne uno, e il gioco è fatto ("Singing Softly To Me"). C'è poi quel modo di suonare le chitarre acustiche, laddove il fingerpicking magnetico di Kozelek (Sun Kil Moon), ma più radioso, si scioglie in una soluzione ininterrotta di pattern intrecciati ("Winning A Battle, Losing The War") e votati talune volte al richiamo folk-pop: è il caso della "Toxic Girl" degli amori a senso unico, come cantano Øye e Glambæk sospirando "She's intoxicated by herself / everyday she's seen with someone else / and every night she kisses someone new / never you", o del bucolico idillio coltivato da "Little Kids", tutto pause pianistiche e ripartenze gravi di chitarra.
Un vero e proprio idromassaggio neuronale in vasca acustica, che rilassa le membra e riposa i pensieri, in cui ancora non fanno piena presenza i duetti corali sulla scia dei Simon & Garfunkel (step successivo degli album seguenti) ma che già così è capace di alterare gli spazi di risonanza delle melodie passando di slancio da un mesto vagabondare cittadino ("Failure" con il suo ritornello consolatorio "Failure is always the best way to learn / retracing your steps until you know / have no fear your wounds will heal") a un lento abbandono al crepuscolo balneare ("Leaning Against The Wall") e alla sottile malinconia da giardino, sempre in tema amoroso e new-acoustic ("I Don't Know What I Can Save You From"). I sommessi non-movimenti di "Parallel Lines" con i suoi indolenti versi meditativi ("Parallel lines / move so fast / toward the same point / infinity is as near as it is far"), poi, sono l'ultima conferma di come nell'album ci sia ben poco di loud e fin troppo di quiet, ormai estetica presa di posizione che si percepisce già dal titolo.
Che sia una scelta radicale e totalizzante non v'è dubbio; sta poi ad ognuno coglierne i piaceri o i fastidi del caso, tenendo però sempre presente l'importanza del disco, modesta ma viva, specialmente per il ritorno a un modo cortese e delicato di approccio alla canzone pop.
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