Loney, Dear
Loney, Noir
Il disco che aspettavi ti capita tra le mani così, senza preavviso, mentre stai a guardare nelle bacheche virtuali i grandi nomi in attesa della sospirata release ufficiale, distratto: ti prende alle spalle, ti agguanta, e non ti lascia più andare.
Un nome che non ti dice niente, Loney, Dear, i soliti svedesini da cui ti aspetti Smiths, twee, electro pop e poco più, una copertina né bella né brutta, fari nella notte riflessi in uno specchietto retrovisore. E quasi non fai caso al nome dell’etichetta, la solita Sub Pop, una volta simbolo del grunge di Seattle e ora faro dell’indie pop.
Sinister in a State of Hope attacca e ti ritrovi inchiodato alla sedia: pensi al Neil Young più affranto, nudo, romantico, risenti i Grandaddy, spogliati dei loro gingilli lo-fi, ti ricordi dei meravigliosi, ultimi Robot Ate Me, ma li ritrovi con un cuore più grande. Un cuore grande, e spezzato.
Un pezzo solo, e ti hanno già conquistato. Una manciata di note e sei già loro. Quando ascolti il twee di I Am John, sorridi beato, che non ti ricordavi che melodie così esistessero ancora, ti chiedi dove fossero stati nascosti, questi Loney Dear, da quale meraviglioso pianeta provengano.
Quando parte Saturday Waits quasi li odi, che questo disco è un’operazione a cuore aperto, un esperimento irresponsabile sulle tue coronarie: commosso, ti ricordi perché un bel giorno hai spento la radio e hai cominciato ad ascoltare oscuri gruppi indie pop, riscopri come un falsetto, a volte, possa essere una stilettata al cuore, altro che malanni del sabato sera.
Di Hard Days adori e abbracci l’apparente banalità, e quando arriva il refrain scopri che il già sentito a volte è una maledizione affascinante e necessaria. Gli schemi razionali sono definitivamente saltati, il tuo livello critico pari a quello di una groupie delle più accanite.
Non importa che da lì il disco si adagi su una piacevolezza un po’ più canonica, un po’ meno fuori dalle righe. Servono pezzi per sbollire la sbornia emozionale di quei primi pezzi: provvedono brillantemente la bella I Am The Odd One, quasi un outtake di The Robot Ate Me, il classicismo pop di I Could Say, il walzer delicato di I Will Call You Lover Again.
E poi Carrying a Stone obliqua e romantica, The Meter Marks Ok sconsolata e barocca e la concessione più generosa al lo-fi dei Nonnetti, una And I Won’t Cause Anything At All che suona come suonerebbe il gruppo di Modesto se avesse passato un mese immerso in un barattolo di miele.
Ti spazza via il cinismo, un disco così, ti fa buttare nel cestino etichette, rimandi, targhette e mode. La sua bellezza è direttamente proporzionale alla sua semplicità, la sua espressività emotiva funzione della sua modestia: e se sentendolo non provate niente, guardatevi indietro, che strada facendo forse, insieme a qualche annetto di troppo, avete smarrito anche il cuore
Tweet