R Recensione

7/10

Marina and The Diamonds

The Family Jewels

Gallese di origini greche, Marina Diamandis, in arte Marina And The Diamonds (i diamanti cui si riferisce sono gli spettatori, non la band di supporto) è (era?) una delle più promettenti cantautrici indie pop della Terra d’Albione.

L’album di debutto che si va a recensire è un curioso incrocio di molti generi musicali, tutti uniti sotto la bandiera del pop: non sfugge nulla alla sua estetica musicalmente onnivora, e questo è per lo meno un segno di onestà intellettuale. Anziché rifugiarsi dietro intellettualismi presunti  o, peggio ancora, presunta arte derivativa dal peggior Warhol, Marina ammette di fare semplice pop, cercando al tempo stesso di risultare il meno banale e plastica possibile. E la plasticità di certe popstar di cui si parlava prima finisce proprio nel mirino di alcune canzoni sfottò, come Shampain, che fa il verso a Lady Gaga, o ancora la centrale Hollywood che prende in giro certi barocchismi anni ’80.

La scena di riferimento rimane comunque quella indie di fine decennio, e dunque più di una volta nei brani fa capolino l’elettronica, che però mai si piega al minimalismo, senza per questo eccedere. Si tratta di un album fisico, complici certe influenze rock che la cantante si porta dietro (Annie Lennox, Kate Bush).

Estetica onnivora, dicevamo, e infatti a mio avviso si pone, in questo senso, come corrispettivo british di Lana del Rey, sua tesi ed antitesi al di qua dell’Atlantico: accomunate dal mescolamento di alcuni dei principali generi delle proprie nazioni (hip hop e soul la cantante americana, indie ed elettropop la greco-gallese), tese entrambe a smascherare l’american dream e lo showbiz. Ma se Lana del Rey ha un personaggio molto più complesso che sfuma in varie tonalità di depressione, ed è dotata di una voce molto limpida e, per certi versi, regolare, Marina si prende molto meno sul serio e sfrutta questa basilare ed opposta concezione per modulare la sua voce in maniera molto più articolata. Ciò che, infatti, colpisce molto più degli arrangiamenti ora elettronici ora d’orchestra, è la notevole estensione vocale della cantante, capace di raggiungere note alte e note molto basse nella stessa canzone, nello spazio di una strofa, se non di un verso. E questo è assolutamente un punto a favore della gallese.

Infine, una teorica pesantezza di alcune derive folkie che potrebbero limitarne il successo è magistralmente nascosta sotto la patina, come si diceva all’inizio, del pop, un pop alla Lily Allen che conferisce a Marina il mix giusto. Infatti quest’album è stato un buon successo in Inghilterra, ma come spesso accade, le charts positive si sono rivelate un’arma a doppio taglio per la cantautrice, che nel secondo disco non è riuscita a sfoderare un miscuglio altrettanto gradevole. Ma è presto per parlarne, siamo solo al secondo album e il tempo ci dirà se fu vera gloria. Per ora possiamo goderci questo simpatico album senza remore.

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