Mazes
A Thousand Heys
Indie pop nella sua espressione più pura: così potremmo definire i Mazes, brillante e giovanissimo trio di Manchester (Jack Cooper, voce e chitarra; Neil Robinson, batteria; Jarin Tabata, chitarra; Conan Roberts, basso), che dopo un paio d'anni di autorevoli collaborazioni e di palchi condivisi con gente importante (Deerhunter, Dum Dum Girls) debutta su LP con questo A Thousand Heys, opera prima messa su disco nella città natale lo scorso 11 Aprile.
Immaginate di preparare un bel minestrone a base di Pavement e Blur, con tanto di british-invasion presa di petto (ammiccamenti evidenti ai fratelli Davies), e poi magari un pizzico di New York Dolls, Big Star, Velvet e Tom Verlaine (l'eco secco della sua chitarra è sparso qua e là), qualche goccia di punk e melodie tanto orecchiabili e gustose da evocare lo spettro dei Fab Four.
Ecco, immaginate un calderone simile e vi farete un'idea approssimativa di ciò che sono i Mazes: talento melodico piuttosto avvincente (pur con qualche inevitabile e perdonabile passaggio a vuoto) miscelato con la capacità di trarre ispirazione da tutta la migliore storia del pop, alternativo e non; attraversando con disinvoltura l'Atlantico, e stringendo amiciza tanto con la tradizione indie americana (non solo echi dei Pavement, ma anche e forse soprattutto di punk-poppers con i Superchunk e Lemonheads) quanto con la più robusta tradizione anglosassone ed il suo smaccato gusto per la melodia.
L'introduttiva title-track, in tal senso, con il suo ritornello appiccicoso ed il giro di basso sincopato e quasi McCartney-ano, è forse il pezzo più emblematico dello stile della band.
In ogni caso, è tutto il disco che scorre leggero ed asciutto: per dire, Bowie Knives è pop scintillante che regala un tema brillante e quasi degno di certe cose del Duca evocato dal titolo; la successiva, brevissima (come quasi tutti i brani) Summer Hits or J+J don't like è altrettanto briosa e colorata.
Sul versante malinconia (quasi un Neil Young che entra di soppiatto e divertito in casa brit-pop, se mi viene concesso) discrete sono Cenetaph e la splendida Death House (per chi scrive il vero gioiello del disco).
Volendo trarre le conclusioni, trattasi di lavoro discreto che pone le basi per un promettente futuro, e che sa alternare con furbizia momenti malinconici a scariche elettriche notevoli: consigliato quindi per questi assolati pomeriggi di luglio, non sia mai che ci scappi la canzone della nostra estate.
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