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R Recensione

7,5/10

Sondre Lerche

Pleasure

In principio era la musica. Una e trina, la musica riempiva le giornate (quando erano ancora) lente e sonnacchiose degli adolescenti con i suoi trip lisergici, i suoi soliloqui esistenzialisti, le sue energetiche sfuriate, le sue pose glamour; che accendesse la mente, scaldasse il cuore o facesse muovere il culo (o tutte e tre le cose simultaneamente) la musica era musica e, almeno nel caso di linguaggi minimamente accessibili, viveva tanto delle ragioni della complessità quanto di quelle dell’immediatezza. Per quegli adolescenti la cosa era abbastanza naturale, almeno fino al 1982, anno in cui si verificò uno scisma imponderabile: il pop sintetico e ballabile salì improvvisamente a galla come l’olio sull’acqua, e (quasi) tutto il resto si inabissò in un sistema sotterraneo apparentemente impermeabile. Il peccato originale si consumò tra i solchi di Rio (Duran Duran) e di You Can't Hide Your Love Forever (Orange Juice) – così almeno raccontano le sacre scritture  – due dischi così simili e così diversi da rendere la musica d’intrattenimento una sorta di Giano Bifronte. Massa contro nicchia, pessimo gusto contro buon gusto, commerciale contro artistico, ricchi contro poveri, cattivi contro buoni, il giudizio estetico diventò presto giudizio etico, e l’ascoltatore si trovò di colpo di fronte a un bivio: ascendere in solitudine verso il paradiso, o danzare insieme al resto del mondo tra le fiamme dell’inferno? A esser sinceri la sensazione che i cattivi non fossero così cattivi e che i buoni non fossero così buoni gira nell’aria da un po’ di anni (leggi “poptimismo” o, se piace di più, “sdoganamento”), ma solo più di recente la revisione della morale ha partorito una nuova etica ed una nuova estetica, onnivora ed omnicomprensiva, prontamente abbracciata dai più intelligenti artisti del pop contemporaneo. Tra questi c’è sicuramente il norvegese Sondre Lerche, ormai giunto alla sua ottava prova in studio.

Detta così può sembrare che Lerche sia uno dei tanti menestrelli del XXI secolo con lo shaker in mano pronto a versarci l’ennesimo cocktail a base di indie’n’mainstream. Beh lo è in effetti, tuttavia il nostro, più che dal gusto per la metamorfosi (Miley Cyrus), dall’ossessione per il riciclaggio (Crying) piuttosto che dal desiderio di ribaltamento di modelli rock in chiave pop (Rose Elinor Dougall), sembra mosso da una sorta di vocazione per il sincretismo religioso: la sua missione è tornare a 35 anni fa per cancellare quel bivio, quantomeno immaginare di poterlo fare, un po’ come provare a schiacciare la testa del serpente un istante prima che metta Adamo ed Eva nei pasticci, e poi stare a guardare cosa succede. Lerche porta indietro le lancette a pochi minuti dopo il delitto, più o meno a metà degli anni ’80,  quando la distanza tra indie e mainstream sembrava essere già incolmabile, e fantastica di un mondo in cui Duran Duran e Orange Juice siano parte di un unico supergruppo, gli Orange Duran (o i Duran Juice, come vi pare). Così scopriamo che gli smottamenti armonici dei Prefab Sprout convivono con la dance industriale dei coevi Depeche Mode e con il respiro drammatico dei Tears for Fears senza troppi problemi ("Soft Feeling" e "Bleeding Out into the Blue"). Chi l’avrebbe mai detto, forze che trent’anni fa si dichiaravano respingenti mostrano all’atto della cooperazione una nuova ed inedita sinergia. E dire che la contaminazione non sembra sottrarre efficacia agli spunti originari, semmai ne ricontestualizza le coordinate potenziandone la logica, come a sottolineare che quei due mondi, a dispetto delle apparenze, sono stati nient’altro che diverse declinazioni di un unico verbo: "Reminisce" prefigura una realtà in cui "Oblivious" degli Aztec Camera può  arricchirsi di bassi gommosi e chitarre à la Fripp per funzionare ancor meglio di quanto non facesse in acustico, mentre "I Know Something that’s Gonna Break Your Heart" narra la legenda di una psichedelia Pasley che, mettendo da parte gli integralismi e facendo tesoro dell’armamentario synth-pop, cesella con abilità piccole soundtracks retrofuturiste.

Qualsiasi giudizio sulla dignità delle fonti viene spazzato via da un uso paritetico degli elementi a disposizione; del resto il revivalismo 2.0 (che oggi sarebbe più opportuno chiamare vintagismo) sfoggia una freschezza inaudita, possibile solo attraverso questo gioco di riassortimento e superamento ideologico. C’è spazio così anche per qualche inserto più sperimentale, un tempo il tipico stratagemma per elevare il livello della proposta easy-listening, oggi un ingrediente come un altro da gettare nel frullatore. "Serenading in the Trenches" è il distillato della Britannia post-post-punk, proiettata nell’alveo di una nostalgia neo-beatlesiana (XTC) ma ancora tormentata da scorie rumoriste (The The), come pure "Hello Stranger", in cui un’inattesa base house incontra la melodia in una dimensione di sorprendente instabilità tonale, è la metafora di uno scivoloso sogno a stelle e strisce. Oscillazioni dell’entropia che trovano un punto di non ritorno in "Violent Game", up-tempo tipicamente indie-eighties che subisce una graduale disarticolazione con conseguente deriva impro nella coda finale, tanto che quando il tema d’apertura torna nell’ultima traccia dell’album, l’universo attorno ad esso sembra non essere più lo stesso. Un vero e proprio gioco violento, che – d’accordo  – nel 2017 non è più così scandaloso, ma che conserva intatto l'allure della sua innocente e primigenia peccaminosità. Per gli amanti del pop, è il caso di dirlo, a really true pleasure.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 1 voto.
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Cas 7,5/10

C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Cas (ha votato 7,5 questo disco) alle 12:02 del primo giugno 2017 ha scritto:

disco molto bello e recensione ottima: un altro ottimo esempio di riappropriazione creativa di codici stilistici decontestualizzati e messi al servizio di un pop moderno, ricco, divertente, spesso innovativo.

tra i riferimenti che hai fatto non ho trovato i Pet Shop Boys, che invece io sento tantissimo. un abbaglio?

woodjack, autore, alle 15:27 del 3 giugno 2017 ha scritto:

no no, i Pet si sentono eccome, sia nella modalità di composizione che nella qualità delle melodie applicate ad una base post-disco. Ho cercato di ridurre i riferimenti ad altri gruppi (che sono ancora troppi!), l'ideale - quando si scrive di musica - sarebbe farne il meno possibile. Anche sulla capacità di sintesi c'è ancora da lavorare, come si dice... less is more, per chi ci riesce