The Clientele
Bonfires on the Heath
I Clientele rappresentano un’anomalia nella scena musicale inglese. Apprezzati di più oltreoceano che in patria, amati nelle proprie raccolte di singoli ‘preistorici’ (“Suburban Light”, 2000; “It’s Art, Dad” 2005) piuttosto che negli studio-album veri e propri, Alasdair MacLean e soci vivono uno scartamento inusuale per una band che staziona in un territorio indie pop guitar-oriented non di certo ostico alle orecchie. La ragione di questa singolare e permanente estraneità sta, direi, nella storta fisionomia della loro proposta musicale, in equilibrio tra una ricerca melodica piana e distesa, da pop pastello solo un po’ più introverso della media (Felt, Galaxie 500), e un suono detritico e scontroso, volentieri ricolmo di riverberi. I Clientele hanno mostrato per un decennio come far convivere, figurativamente, un prato illuminato dal sole e una ramaglia contorta nella nebbia.
Dopo aver profuso per anni sfocature lo-fi che inviluppavano i pezzi nella foschia del feedback e in un’aura crepuscolare tutta nordeuropea, brumosa fin quasi al folklore (da cui, credo, il gradimento americano, alimentato da un esotismo ‘olde-england’ al limite del pittoresco), i Clientele avevano deciso di abbandonare, soprattutto nell’ingenuo “God Save The Clientele” (2007), il polo buio del loro pop. Questo “Bonfires On The Heath”, malgrado una produzione cristallina e ultra-curata, recupera nelle atmosfere lo snervamento intimistico e il decadentismo autunnale degli esordi, ristabilendo la distonia di cui sopra, e giovandosene.
Il disco, a quanto pare l’ultimo della band, odora di foglie morte come non mai, sin dal titolo (più o meno: ‘falò nella brughiera’), ma tanto più nei suoni e nell’umore. La maggior parte dei pezzi ha un passo lento e si muove con svogliatezza tra paesaggi di nature morte e parchi immersi nella sera («I’ve been walking in the park on a dying afternoon»); le strutture sono spesso sfilacciate, come fossero case lasciate in rovina (“Bonfires On The Heath”), mostrando inedite tinte psichedeliche (“Harvest Time”) e languori snervati (“Tonight”). Le chitarre, piuttosto che aggregare il suono in accordi, si sfaldano in singole note e in arpeggi scomposti (“Jennifer And Julia”), sicché ne esce un quadro puntinato, in cui il piano e i corni aggiungono colori in vibrante disgregazione. I Clientele piacerebbero agli impressionisti.
A livello compositivo MacLean dimostra di essere in fase calante: convincono alcuni episodi mossi (“I Wonder Who We Are”, il passo funk di “Share The Night”), ma in genere si intuisce come sia soprattutto l’ammaliante lavoro in fase di produzione a salvare la sostanza (“Never Anyone But You”), nonostante qua e là il ritocco dello studio appaia soffocante (“I Know I’ll See Your Face”). Nel finale viene piazzato un rifacimento di “Graven Wood”, il primo brano composto dai Clientele, in una versione decisamente più sgrezzata rispetto all’originale: la riesumazione, assieme, mostra il percorso di una parabola e chiude il cerchio di una carriera.
E se fine sarà, bene che cada d’autunno, ma quando ancora c’è odore di estate. «Late october sunlight in the wood», canta Maclean nella title-track. Nell’evocatività e nel senso di questa immagine, decadente ma calda, stanno il fascino di un disco e la luce sottoesposta e protetta di una band che continua a piacere giacendo ai margini.
Sito ufficiale: www.theclientele.co.uk/
Myspace: www.myspace.com/theclienteleofficial
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