The Decemberists
The Crane Wife
La quarta prova (in soli cinque anni) degli americani Decemberists è assieme una conferma e una svolta: se il genere di Colin Meloy e soci rimane un indie folk dalle coloriture vivacemente picaresche, qui si avvertono, contemporaneamente, alcune complicazioni concettose e alcune concessioni a un pop rock più addomesticabile. Ma poco centra il coincidente debutto per una major: a conti fatti il disco risulta più complesso e colto dei precedenti, soprattutto perché di autentico concept album si tratta. I dieci brani svolgono in musica la trama di una fiaba giapponese, con protagonista una gru che, salvata da un uomo, ne diventa moglie per riconoscenza, per poi fuggire una volta scoperta. Meloy, romanziere mancato, partorisce qualcosa a metà tra novella e disco, riuscendo ad evitare gli impaludamenti e i tempi morti che spesso (e malvolentieri per chi ascolta) caratterizzano i concept album: lattenzione rivolta al plot non soverchia mai la cura per laspetto più propriamente musicale e melodico, neanche nei due blocchi epici del disco, ossia la seconda e la nona traccia, che superano entrambe i dieci minuti (in realtà sono vere e proprie somme di singoli pezzi che ben si armonizzano e collegano tra loro, come paragrafi che vanno a formare i capitoli di un libro).
Si diceva di novità stilistiche e sonore: rispetto ai dischi precedenti spuntano senzaltro più chitarre elettriche, che vanno a sostituire le fisarmoniche del passato, con effetti più o meno felici (questultimo è il caso di un pezzo troppo fuori sacco e ruvido come When The War Came); le basi si fanno più pop, come in O Valencia! e The Perfect Crime 2, dove i riff anni settanta di elettrica e le sfumature funky di basso e organo creano un clima alquanto sciolto e ballabile, inedito per i cinque di Portland; altrove Meloy rispolvera sfumature un po alla R.e.m., come ai tempi dei Tarkio; in altri momenti, specie in alcuni passaggi delle due tracce-collage, si assiste persino a qualche deragliamento in territorio psichedelico, o in zone zingaresche che, come in The Landlords Daughter, richiamano assurdamente allorecchio certo nostro cantautorato ligure. E poi cè la continuità: la voce angolosa e nasale di Meloy, i passaggi più folk e menestrellanti (con Okkervil River sullo sfondo), lalternanza di pezzi da taverna e ballate acustiche un po ubriache e barcollanti (come Shankill Butchers e Youll Not Feel The Drowning, tra le cose migliori), i brani in crescendo tra arpeggi, organi e cori.
Tutto sommato non si assiste a nessuna eretica deviazione né tanto meno a palinodie pericolosamente ammiccanti al mainstream indie rock: il cambiamento di rotta, per una band così marinaresca e piratesca come i Decemberists, non può che essere salutare, anche perché i mari già largamente navigati nei dischi precedenti rischiavano di rivelare insidiose secche. Le variazioni, eclettiche e orientate in direzioni impreviste e non univoche, possono magari ostentare una rischiosa incertezza, rivelare uninsospettata natura anfibia della band, tra una nicchia folkloristica e lindie più masticato, tra antico e moderno, tra color seppia e technicolor, ma senza nuocere affatto allesito complessivo.
Limpressione finale è che lesplorazione di Meloy e Co., lo sbarco dal vascello sulla terraferma, sia in gran parte riuscito, come dimostrano ottimi pezzi come Summersong o Yankee Bayonet, allaltezza dei Decemberists più gagliardi, in linea con le proprie sonorità e ben aggiornati, senza snaturamenti o furbizie. Il lavoro, pur con piccole crepe, è tra i più felici dellanno nel suo genere; solo un po troppo eterogeneo e slogato, tanto da far godere, dallalbero maestro, di un orizzonte talmente vasto da provocare le vertigini.
Tweet