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R Recensione

6,5/10

The Pains of Being Pure At Heart

Days of Abandon

Le band che crescono e spengono gli amplificatori mi hanno sempre fatto incazzare (sotto sotto sono un fanboy) questa volta però i The Pains Of Being Pure at Heart si sono salvati in corner.

Innanzitutto bisogna dire, per onor di cronaca, che la tastierista e seconda voce Peggy Wang ha lasciato (“amicably” dice Berman) il gruppo per seguire altre strade e questa notizia poteva essere foriera di sciagure.

Come dicevamo però, non è andata così male, anche se ciò dipende dai punti di vista.

Se pensiamo che l’esordio e poi “Belong” ci avevano consegnato una band protagonista dell’indie pop del nuovo millennio e che soprattutto ci aveva regalato un gran numero di autentiche perle, “Days of Abandon” potrebbe essere ascoltato con un po’ di disappunto. Sarebbe ingeneroso dire che le pedaliere dessero un senso a quelle che erano comunque delle canzoni dalle basi solide, ma non possiamo neanche dire che facessero semplicemente da arrangiamento.

In “Days of Abandon” i suoni sono limpidi, a partire dalle chitarre e troviamo tastiere pulite, non più organetti o synth saturi, oltre che strumenti a fiato. Nell’operazione di allontanamento dal campo del noise pop, ci si avvicina a una ricetta più classica, che con l’epicità implicita nella scrittura di Berman potrebbe essere accostata per certi versi al boombastic jangle-pop dei The Heartbreaks.

E sin da subito si sente il cambio di registro: “Art Smock” è una filastrocca acustica con un’appagante linea vocale. Una cosa totalmente nuova per la band di Baltimora. Con la nuova produzione emergono gli strumenti, le trame delle tastiere e gli inediti interventi dei fiati (“The Asp in My Chest” e la sua chiusura alla Beirut) e l’entusiasmo è solo un filo al di sotto degli album precedenti (il singolo frizzante “Simple and Sure”).

Di colpi assestati ce ne sono; “Eurydice” (pure loro col mito di Orfeo?), “Kelly”, (cantata da Jen Goma degli A Sunny Day In Glasgow come anche “Life After Life” ) nella quale troviamo un intreccio chitarre-basso così Smiths come non se ne sentivano da… bè, da quando Morrissey & Co. erano ancora in circolazione. Non è da meno “Masokissed”, ma è sempre un piacere sentire degli arpeggi simili (tenete conto che chi scrive è un feticista della chitarra di Marr).

Coral and Gold” richiama il dream pop da spiaggia dei Blueboy, salvo l’aprirsi in un escalation corale. Solo in “Until the Sun Explodes” si risentono in parte le sonorità passate (ma senza riviverne i fasti) e di fatti è stata rilasciata come “antipasto” diversi mesi prima dell’uscita dell’album.

Nonostante il restyling possiamo ancora chiaramente riconoscere la firma di Berman, con le sue strofe contagiose e i ritornelli liberatori a cui è difficile resistere. Quindi, anche se “i Pains” non sono più la band su cui “pogare col cuore in mano”, un’altra manciata di canzoni per lenire le pene dei nostri cuori ce l’hanno regalata. Impossibile volergli male.

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Voto degli utenti: 6,2/10 in media su 5 voti.
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target 6/10
REBBY 6,5/10

C Commenti

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target (ha votato 6 questo disco) alle 21:49 del 16 maggio 2014 ha scritto:

D'accordo con Vito. Il disco minore della loro discografia. Un po' patinato, meno sfrontato. L'indie pop non dovrebbe diventare maturo mai.

Sor90, autore, alle 22:00 del 16 maggio 2014 ha scritto:

"L'indie pop non dovrebbe diventare maturo mai". Sante parole. Indie-pop maturo è un ossimoro. Decisamente il minore dei tre, a suo tempo però l'esordio fu trattato troppo male qui su Storia (per me sfiora l'otto).

target (ha votato 6 questo disco) alle 22:02 del 16 maggio 2014 ha scritto:

Eh, c'era un Cas in versione sparagnina. 8 pieno all'esordio, altroché!

Sor90, autore, alle 22:08 del 16 maggio 2014 ha scritto:

Massì diamoglielo l'8, sto diventando tirchio!

REBBY (ha votato 6,5 questo disco) alle 11:57 del 31 marzo 2015 ha scritto:

Non c'è due senza tre eheh mi accodo a Sor Target.

Le mie preferite in questo sono le due cantate da Jen Goma.