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R Recensione

7/10

The Pastels

Slow Summits

Facciamo un gioco. Io butto lì una parola e voi rispondete con la prima cosa a cui vi fa pensare. No, non abbiate paura, non si tratta delle associazioni libere di scuola freudiana, è una cosa molto più frivola. Se dico “Glasgow”, per esempio, voi a cosa pensate? Vediamo un po’, gli amanti del tennis, risponderanno “Andy Murray”, fresco vincitore di Wimbledon, quindi adottato, tempestivamente, dai sudditi della regina; quelli di calcio diranno “Celtic FC”, ricordando, con le lacrime agli occhi - di commozione o di dolore, a seconda che gli occhi siano, rispettivamente, quelli di uno scozzese o di un italiano - una vittoria in Coppa dei Campioni, nel 1967, ai danni dell’Inter (Grazie Wiky, I love you so much). Gli appassionati di politica vi parleranno della tanto agognata indipendenza della Scozia, e delle ragioni per cui sia più o meno auspicabile che essa si verifichi; quelli di meteorologia vi diranno che quello della nebbia è solo un grosso luogo comune (sì, vabbè) e quelli di pesca confesseranno che il Clyde è così inquinato, che niente pesca, insomma.

Se invece siete voi a dire Glasgow, io penso a (tutto d’un fiato, mi raccomando!) Blue Nile, Jesus & Mary Chain, Primal Scream, Mogwai, Franz Ferdinand, Glasvegas, Wet Wet Wet, Texas (non fate finta di non coscere i loro singoloni Inner Smile o Summer Son, che tanto non vi credo) e, soprattutto, a titolo prettamente empatico, a Aztec Camera, Orange Juice, Vaselines, Teenage Fanclub, Travis, Arab Strap, Delgados, Camera Obscura e, last but not least, Belle & Sebastian... Impressionante, no? Prima o poi, bisognerà capire cosa mettono nella birra, da quelle parti...

A questo corposo e incredibile elenco, vanno aggiunti i Pastels, band che se non ha inventato l’indie-pop, poco ci manca. Ovvio, quindi, che una loro nuova uscita - che arriva a 16 anni dall’ultimo Illumination, tralasciando collaborazioni (con i giapponesi Tenniscoats) e colonne sonore (The Last Great Wilderness, dall’omonimo film del 2002) -, solo la quinta in 26 anni di carriera, sia un piccolo caso, per tutti gli anorak boys & girls sparsi per il mondo, ma non solo.

Diciamolo subito: Slow Summits (questo il titolo del nuovo album, pubblicato dalla Domino) non è un capolavoro. Non vale l’urgenza espressiva e le timide trame stonate del loro insuperato debutto Up For A Bit With The Pastels (del 1987), né la solidita melodica e strutturale del più maturo Mobile Safari (datato 1995). Tra lo status di capolavoro, però, e quello di lavoro trascurabile, vi sono diverse fasce intermedie, ed è proprio in una di queste che si piazza l’album in questione.

L’impressione è che StephenPastelMcRobbie e Katrina Mitchell (storici componenti della band ed unici sopravvissuti ai cambi di formazione verificatisi nel corso degli anni) abbiano voluto regalarci il loro lavoro più calmo, sereno, riappacificato e slow. Più chamber music che basement music, per semplificare.

Eccoci, allora, davanti a nove canzoni (di minutaggio fin troppo esteso, stando agli standard del genere, in considerazione di alcune code - si pensi a quella piccola meraviglia che risponde al nome di Summer Rain - che ci ricordano l’interesse della band per le lievi distorsioni e le leggere sperimentazioni che, da sempre, si sono affiancate alla loro ricerca della melodia pop perfetta) che, ancora una volta, fanno il punto sullo stato della musica indie-pop degli anni ’10, dopo averlo già fatto per gli anni ’80 e ’90 dello scorso millennio.

Una manciata di brani, di cui ben due interamente strumentali (la breve e struggente After Image - costruita sul suono solenne del pianoforte e quello notturno e un po’ sconsolato di una tromba - e la title track, piccolo assaggio di musica da camer(ett)a che vede archi, ottoni e legni affiancarsi a strumenti più tradizionalmente rock), che vanno dallo sfacciato e irresistibile up-tempo, di matrice spudoratamente twee, del singolo Check My Heart (con l’alternarsi, al canto, dei due principali componenti della band), alle atmosfere riflessive e fortemente malinconiche della già citata Summer Rain (apice dell’album, per chi scrive) e di Night Time Made Us. Da una Wrong Light che fa pensare ad un brano dei Galaxie 500 arrangiato dai Felt, alla conclusiva Come to Dance che, col suo accompagnamento di flauto, fa più Belle & Sebastian dei Belle & Sebastian stessi.

Nel complesso, la scrittura di McRobbie e della Mitchell pare, oggi, decisamente più allineata: quello che si perde in personalità e originalità, lo si guadagna, però, in piacevolezza e facilità di ascolto. L’introspezione quasi autistica degli esordi, supportata da quell’estetica lo-fi e da quelle sonorità quasi noise che sono valse loro diversi paralleli con gli americani Beat Happening (che non hanno mai avuto, però, le doti melodiche dei nostri scozzesi), ha lasciato spazio ad una ben più sviluppata ariosità e ad un gusto della circolarità armonica che hanno fatto la fortuna dei conterranei Belle & Sebastian e che ci riportano, a tratti, all’ultimo, riuscito lavoro “solista” di Gerard Love, a nome Lightships.

Inutile cercare riferimenti, però. Certo, qualche velenosità di retaggio velvetiano, qui e lì, affiora timidamente, come pure affiorano la sofisticatezza setosa di stampo bacharachiano e la sconclusionatezza immatura dei Television Personalities, ma i Pastels sono i Pastels e basta. Più facile, senza dubbio, sarebbe individuarne i seguaci, ma qui la lista si farebbe davvero troppo lunga. Poco importa: i Pastels sono tornati e ci permettono, ancora una volta, di rivivere un’adolescenza che non è succube di un determinato lasso di tempo, ma si fa spazio di attesa, di speranza, di languore, di eterna primavera.

“Di me vorrei si notasse l’assenza e non la presenza”... Non ricordo se questa frase è mia, se l’ho scorta dentro un bacio perugina, se l’ho sentita in un film o letta in un libro. Certo è che per i Pastels - e per pochi, ma davvero pochi, altri - non riuscirei a trovarne una più appropriata.

... E, ancora adesso, tra un ascolto e l’altro, continuo a chiedermi cosa mettano nella birra, a Glasgow e dintorni.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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Dr.Paul alle 20:12 del 16 luglio 2013 ha scritto:

Blue Nile, Jesus & Mary Chain, Primal Scream, Mogwai, Franz Ferdinand, Glasvegas, Wet Wet Wet, Texas (non fate finta di non coscere i loro singoloni Inner Smile o Summer Son, che tanto non vi credo) Aztec Camera, Orange Juice, Vaselines, Teenage Fanclub, Travis, Arab Strap, Delgados, Camera Obscura e, last but not least, Belle & Sebastian.

Salvo ma i simple minds sono considerati troppo mainstream x entrare nell'elenco? pastels band di importanza stratosferica, questo disco lo sto ascoltando in questi giorni e mi ritrovo nei tuoi pensieri.

salvatore, autore, alle 20:34 del 16 luglio 2013 ha scritto:

Non più mainstream dei Texas, comunque... Li ho dimenticati, Paul! Chiedo venia Ad ogni modo, la cosa si fa ancora più incredibile...

FrancescoB alle 12:19 del 17 luglio 2013 ha scritto:

Mi piacciono da sempre i Pastels, anche se non li riprendo in mano da una vita. Proverò anche questo, mi fido del Salvo

salvatore, autore, alle 10:12 del 20 luglio 2013 ha scritto:

Diffida sempre di quelli in cui confidi Scherzo! Grazie per la fiducia, Francesco