The Whitest Boy Alive
Rules
In un periodo in cui continuano a fiorire una miriade di band indie-pop-tronic tutte uguali… vale a dire agili a piroettare tra i solchi senza malizia e artificiosità, dal candore espressivo infantile e schietto, dalle copertine color pastello e tratto fumettistico, diventa impresa ardua stare dietro a tutto. Quindi perché pescare dal mazzo proprio questo lavoro del quartetto The Whitest Boy Alive? Perché è la band guidata da Erlend Oye dei Kings Of Convenience, ed anche perché, diciamolo pure, il loro esordio (Dreams - 2006) è stato un piccolo evento che ha permesso ai ragazzi di spassarsela in un lungo tour sold-out in giro per i piccoli club.
TWBA è il side project voluto e cercato da Mr.Oye come via di fuga dalle autunnali atmosfere del new acoustic movement dei Convenience, via di fuga alla volta di territori faceti e trasognati, piccole storie di tutti i giorni raccontate da arguti novellieri e musicate con l’immediatezza indispensabile per essere ricordate facilmente, qualcosa su cui muovere il sedere, ma anche qualcosa di estremamente intimo e peculiare.
Le undici tracce di Rules si distendono su un campo di battaglia già saccheggiato ampiamente nell’ultimo decennio, soprattutto dai progetti di casa Morr, la coppia di brani in apertura (Keep A Secret e Intentions) riporta alla mente alcune cose di The Go Find e B.Fleischmann, anche se l’accento ritmico di TWBA si mantiene sempre sottilmente funky, in tal senso prova ne sono Courage e Promise Less Or Do More, tracce in cui il bassista Marcin Oz mostra di saper bene dove mettere le mani.
L’album, praticamente, è suonato senza nessun effetto di modifica del segnale sui singoli strumenti: basso e batteria sono la sezione ritmica ridotta all’osso, la chitarra elettrica di Oye è pura e cristallina come acqua che sgorga dalla fonte, la vena elettro è fornita dai synth Rhodes e Crumar (insieme al Farfisa –marchigiano anche lui- fiore all’occhiello della produzione italiana di tastiere e synth di qualche decennio fa), a tal proposito vedasi Timebomb, nella quale offrono la variante necessaria a sorreggere una linea melodica fin troppo monocorde e puerile, mentre in High On The Heels e 1517 oscillano fino quasi a sconfinare in zona di giurisdizione disco-house. Un gradevole dischetto propedeutico.
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