The xx
Coexist
Al giro di boa del decennio, tra le realtà capaci di rinnovare, con qualità, la forma pop in terra d’Albione: These New Puritans, Wild Beasts, James Blake, The xx. Per quest’ultimi, oltre ad un riscontro entusiasta di critica (l’acclamazione ingombrante di NME e Pitchfork; il Mercury Prize, nel 2010), anche quel grado di esposizione mediatica a fomentare, di netto, l’hype attorno al progetto. Ad ogni modo, nei tre anni intercorsi dal debutto omonimo, per il trio (l’addio di Baria Qureshi) londinese c’è stato tempo e modo di ampliare, e lasciar maturare con naturalezza quell’estetica spoglia e minimale (Young Marble Giants) che qui, nel sophomore “Coexist” (sempre per Young Turks), appare ancor più sinuosa.
Brevi linee guida: rispetto al ruolo emotivo (integrazione di stati wave e r’n’b) del cantato di Oliver Sim e Romy Madley Croft, quello di Jamie xx possiede chiara funzione strutturale; insinua, d’istinto e scheletrico, andamenti super slow, trascinanti. Si gioca di aspettative, anche oggi, di sincopi ora in movenze downtempo, ora in accelerazioni repentine (un’alternanza di battiti secchi/rigonfi, da genetica dubstep: Burial, SBTRKT, Machinedrum; e in altri territori, gli stessi TNP rientrano nei riferimenti principali degli xx). I bassi pompano note tonde, si mischiano fluidi con la ciclicità di una chitarra solcata, a cui piace impalcare groove minimi, desolati o perché no sexy, tra un beat e quello successivo. Così accade all’apice di “Sunset” (it felt like you really knew me/ now it feels like you see through me") e “Fiction” ("come real life/ why do I refuse you? cause if my feels right/ I risk to lose you"), così accade nel tribalismo metropolitano, decadente, di “Swept Away” (il brano, insieme a “Reunion”, maggiormente accostabile alla cifra stilistica di Nicolas Jaar): il risultato è un incunearsi sottopelle di pose accigliate, grazia introversa - ma tangibile, visiva addirittura. C’è di nuovo che, in quegli spazi lasciati vuoti nell’omonimo, ora vi è riempimento di atmosfere, simil ambient, via texture di sfondo (“Chained”), capaci al contempo di valorizzare la compostezza base di un sound pressoché inalterato rispetto a “XX”; in questo senso, prevalgono ancora scenari in bianco e nero, benché stupiscano certe rese 'cromatiche’ (“Tides”, la stessa “Chained” ).
“Angels” apre, familiare, il disco: è labor limae univerale, instant classic svelata da stati dream; riduzione ad un concreto sentimentale, sommo. “Missing” sprofonda nei contrasti: minimal industrial e pathos, lacerante, di ipertoni. “Try” è proiezione indietronica ,all’osso, con un synth lievissimo, spettro ad avvolgere beat dall’eco cavernosa; “Unfold” è quanto di più sadcore gli xx abbiano sfornato.
Se differenze è dovere indicare, rispetto all’esordio, è possibile rintracciarle in un formato pop(py, easy-listening: come volete) in parte meno evidente: le istantanee melodiche (“Crystalised”, “Vcr”, “Island”) e ritmiche (“Heart Skipped a Beat”, “Basic Space”, “Night Time”, ancora “Island”), in “Coexist” sono messe a fuoco meno nitidamente, e su piani diversi. Qui, come si è detto, si gode di sfumature, ma non si rinuncia all’appagamento dato da una sintesi, dei due elementi citati, dall'amalgama comunque convincente.
Dopo “Bloom”, stessa conclusione può valere per gli xx: come per il duo di Baltimora, anche qui la sensazione è che si sia giunti ad un'alchimia stilistica autogenerativa, dal potenziale espressivo pressoché infinito. Parlare di "xx sound" (come ieri: benché oggi con consapevolezza nuova), seppur nelle differenze (dei singoli episodi, o tra gli album in sé), appare ormai certezza.
Coesistere quindi, evolvendo e rimanendo, insieme, identici: in attesa che l’oblio, nei silenzi, assorba tutto.
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