Tom Odell
Long Way Down
Cosa ne sarà delle nuove generazioni a venire? Quelle che progressivamente stanno deperendo lelan vital a colpi di televisione commerciale e false realtà artificiali? Si potrebbe parlare della nuova società dell Homo informaticus, della sua senziente necessità di fissare uno schermo su cui indagare le vite degli altri come nellomonimo film di Henckel von Donnersmarck. Una sorta di Videodrome ai tempi del plasma e di Facebook. Le nuove leve non riusciranno più a risorgere, incuneate come sono tra una violenta crisi economica e di identità, e di conseguenza perderanno di vista il fine ultimo, avvalorando di gran lunga solo il mezzo necessario a raggiungerlo. Basta vedere cosa succede a chi vuole guadagnare nel circo mediatico della seconda arte: non più artisti con un esigenza da comunicare, bensì solo simulacri vuoti resettati in una forma che precede pericolosamente il contenuto.
Tom Odell in questo discorso fluttua a mezzaria, riuscendo a mantenere un equilibrio funambolico tra la giusta immagine mediatica e una spiccata sensibilità nei contenuti. D'altronde non deve essere facile per chi è nato nel 1990 riuscire a trasmettere emozioni, sensazioni e tutto un corollario di immagini oniriche usando la sola voce e i contrappunti dolci di un pianoforte. No, proprio non deve esserlo. Soprattutto se hai capelli dorati che scendono lunghi ad adornare un viso efebico che sottende limmagine androgina della propria mascolinità. Proprio quel quid che tanto piace ai produttori di boy band in voga attualmente. Ma Odell, concedetemelo, è un po diverso. Sfrutta la sua voce flebile - contrassegnata da un accento smaccatamente british che ricorda un illibato Patrick Wolf per comunicare la problematica dellamore, fil de rouge che si dipana lungo tutta la durata di questo Long Way Down. Non lamore platonico che fa rima con cuore, no, piuttosto la paventata impossibilità di riuscire a trovarne uno duraturo che soddisfi certe aspettative di vita, quello che poi ti consente in futuro di scrivere una zuccherosa The Luckiest come fossi un degno epigono di Ben Folds, artista che sicuramente ha segnato linfanzia di Odell.
Long Way Down alterna momenti semplici fatti di melodie schiette che propalano maestose armonie nellaria ( Another Love) che ricongiungono empaticamente Odell al già menzionato Wolf, eguagliandone in alcuni casi certe scelte stilistiche. Poi, in altre circostanze, il tiro si abbassa, passando il testimone a semplici opere pedisseque che pescano a piene mani nel fortunatissimo repertorio fine anni 90 inizio 00 della tradizione brit pop Inglese. In questi casi lugola di Odell si contrae, diviene nasale citando apertamente Richard Ashcroft e i suoi Verve o, per i più accorti, gli sfortunati Starsailor. Tuttavia è nei momenti più ossessivamente intimi che il nostro riesce ad andare oltre il personale tributo ed assestarsi in un futuribile immaginario cantautorale. Lì dove le sue influenze più marcate lElton John di Yellow Brick Road su tutti lo elevano e riescono a relegarlo ad una dimensione più matura (Grove old with me, Till i lost) che non disdegna anche incursioni prosaiche nel Jeff Buckley di So real, così acido, sofferto anche se molto meno lisergico. Tom Odell è anche questo, un po cantautore, un po cantante ma ancora alla disperata e Pirandelliana ricerca di un personaggio ben definito in cui assestarsi. Non ci sarà la profondità di concetto di Antony Hegarty o le paranoie esistenziali di Cat Stevens, ma in Long Way Down si riesce a vivere brevi frammenti di vita vissuta, come un osmosi, a volte anche con estrema intensità. E non è forse amore questo?
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