Vampire Weekend
Vampire Weekend
Se sporgete un po' la testa fuori dalla finestra e guardate su, verso il tetto della mansarda, potreste scorgere in lontanza quattro bizzarri musicisti newyorkesi intenti a dire la loro sull'ultima craze d'oltreoceano: un inaspettato quanto salutare ritorno in voga dell'afro pop.
E così, se c'è chi senza eccessivi clamori ha negli anni passati rispolverato aromi e sapori slavi (Beirut, Man Man, Nervous Cabaret, DeVotchka), dalla Grande Mela, bruciate in fretta le cartucce del revival new wave, sprofondati nel ridicolo i vezzi musicali ed estetici del presunto new rock, è partita, a ranghi sparsi e con casualità solo apparente (?), un avanguardia di artisti intenzionati a battere nuovi percorsi e nuove piste musicali.
Magari li avete sentiti nominare di sfuggita nelle cronache musicali: Yeasayer, Dirty Projectors, Mahjonng (per la verità originari di Chicago). Il filo che li lega è sottile, le proposte musicali quantomai variegate, la fascinazione per la musica “africana” (perdonate la generalizzazione) solo uno dei tanti riflessi che brillano nelle miscele musicali proposte.
Spiazzanti e irresistibilmente pop, i Vampire Weekend hanno gettato nel panico schiere di critici , lanciati in un gioco al rilancio di nomi storici della “world”, Talking Heads, il Paul Simon di Graceland e Peter Gabriel, su tutti. Parallalmente è partito il solito telefono senza fili (si fa per dire) della rete. E l'eccitazione ed i tam tam che si sono innescati attorno al gruppo, si rivelano fondati, fin dalle prime note del disco.
Mansard Roof potrebbe passare per una gemma nascosta dei Beatles era-merseybeat o di qualche starletta o qualche girls group dei primissimi '60s, non ci fossero quelle ritmiche sincopate e chitarrine sbucate da qualche angolo del Mali in primo piano a sgamare il giochino postmoderno.
Elementi che emergono ancor più nitidamente nell'indie pop manuale di Oxford Grammar e che avviluppano in una miscela unica e imprevedibile una A-Punk che pare partorita da una strana fusione di Clash e Police, in cui l'isoletta Giamaicana si trasferisce come per magia sulle sponde del Niger.
E' un abbraccio speciale e spontaneo, quello che cinge l'afro pop di Cape Cod Kwassa Kwassa, meno turistico e più genuino di quello che ricordavamo da Graceland o dalle incursioni nel Mali del signor Albarn: come se per un secondo, afro e indie pop divenissero la stessa cosa.
Basterebbe questo a fare di Wampire Weekend uno dei dischi indie pop dell'anno ? Probabilmente no. E infatti sta altrove la vera forza di questo esordio: nella capacità di inanellare pezzi pop perfetti, che entrano in testa al primo giro senza stufare con gli ascolti successivi, sapienza innata nel mantenere per tutto il disco un'irresistibile ed intelligentissima vena twee, a baciare un pezzo come Campus (roba da Sondre Lerche dei tempi d'oro) e ad alleggerire una One che rilegge, ancora una volta, i Police in un'inedita chiave afro pop.
Strane spore Barrettiane paiono serpeggiare tra le pieghe di Bryn, Walcott è un tripudio power pop barocco che farebbe nascondere dall'invidia Josh Rouse e Ben Kweller, The Kids Don't Stand a Chance è un altro trionfo di inglesità.
Era dai tempi degli Unicorns prima, degli Islands poi, che non si sentiva un esordio così fresco e immediato, e una simile ricchezza d'idee: la capacità di rimescolare le carte in tavola senza cedere per un momento a derive o tentazioni avant pop.
New York è ripartita: sarà bene prenderne atto al più presto e cominciare a preparare le valigie.
Tweet