Veronica Falls
Veronica Falls
“Giovani carini e disoccupati” era il titolo di un film dei primi anni novanta con Winona Ryder, Ben Stiller ed Ethan Hawke. Oggi, oltre che la funesta previsione sul futuro di molti nostri coetanei e succedanei itagliani (se sei carino/a, ma proprio carino/a carino/a, al massimo ti guadagni qualche amicizia su facebook o un “bunga bunga” per arrotondare), potrebbe essere la definizione più calzante per questo gruppo inglese dal nome seducente: Veronica Falls. O almeno lo era, fino a qualche tempo. Nel senso: i quattro londinesi “giovani e carini” lo sono ancora, perlomeno le due fanciulle Roxanne (Clifford: già con Royal We e Sexy Kids) alla voce e Marion al basso, ma “disoccupati”, beati loro, non più. Dal momento che, dopo due anni di abboccamenti e molte chiacchiere (favorevoli) su myspace, bandcamp, last fm et similia, ma pochi fatti, hanno finalmente pubblicato il tanto sospirato primo album che raccoglie i pezzi già noti sul web e ne aggiunge altri di suoi.
La butto là: i Veronica Falls potrebbero essere gli eredi dei Vaselines. O i loro fratellini e sorelline minori, dato che questi ultimi sono prepotentemente tornati in pista giusto l’anno passato. Con il redivivo duo allargato di Glasgow, i Nostri hanno diverse cose in comune: quell’esilità insieme malinconica e scanzonata, innanzitutto, quel modo di usare raddoppi maschili su voce femminile e coronare il tutto con coretti e refrain insinuanti. O volendo essere più specifici, sul piano della nomenclatura rock: per quel loro suonare post-punk brumoso - molto anni 80, “This is England” e “Grazie, Signora Thatcher” - in una spudorata declinazione pop, per il loro porsi fra twee anglo-scozzese e indie-rock americano, fra Pastels e soci e i sempiterni (tutte le strade alternative prima o poi portano là) Velvet Underground.
Grazie a melodie gradevoli e solleticanti, ricamate su un impianto veloce, sparato, essenzialmente chitarristico che alterna staccati taglienti e percussivi a fraseggi jingle-jangle più distesi e sospesi. Sempre revisionista ma personale, nella fattispecie, è la loro predilezione per certo 60s pop e garage-beat e le sfumature adolescenziali quasi dark e mistery schermite però con piglio ironico - da lettori di fumetti “al femminile” e “d’essai” come “Evil Eye” o “Judy Drodd” di Richard Sala - che si trovano qua e là nei testi. L’insieme suona decisamente omogeneo e scattante, volendo un po’ ripetitivo, sul finire della scaletta, ma compensa qualche eccesso di carineria da indi-cocchi di mamma critica britannica con una discreta dose di freschezza e d’impressionismo giovanile. Trainati da singoli di sicuro fascino ed immediatezza come “I Found Love In A Graveyard”, “Bad Feelings” (con quel twang inziale quasi surf), “The Box” e “All Eyes On You” (fra gli intrecci vocali/corali più leggeri e riusciti), con la voce della Clifford ora svenevole, ora squillante come l’amichetta del cuore depresso-ironica che ti fa sorridere e riflettere, brani incalzanti e tirati (“Come On Over”, “Beachy Head”, “The Fountain”) si alternano a passaggi più rilassati e distensivi come la fanciullesca “Stephen” e l’omonima e title-track, forse l’episodio più folkish e twee dell’intero lotto.
In cima alle cascate Veronica prova il gran salto. Ma non preoccupatevi, è solo per scherzo: per vedere l’effetto che fa. L’impressione, però, è che più d’uno sarà lì a guardarla col fiato sospeso e il naso all’insù. Sempre giovani, ma con diverse canzoni carine e occupati a suonarle in giro in compagnia di gente come Dum Dum Girls o Pains Of Being Pure At Heart.
Tweet