The Heartbreaks
Funtimes
Spesso l'illuminazione arriva quando meno te l'aspetti. Quando dai tutto per perso e cominci a definire i contorni dei tuoi pensieri, cercando motivazioni il più possibile razionali a sostegno di qualcosa che puoi soltanto sentire. Poi, in un batter di ciglia, eccola. Nel caso di Funtimes, l'illuminazione ha avuto la consistenza zigrinata di una Rickenbacker che setaccia, a suon di intervalli di terza, il solco armonico proiettato su tela da due accordi in successione. Sono gli ultimi quaranta secondi di Liar, My Dear (uscita come singolo nel 2010 ma registrata in una nuova versione per l'album), pressappoco un'entità a parte nel corpo della medesima canzone. Non la classica coda disgiunta dal troncone, di quelle concepite apposta per disorientare, per stupire con gli effetti speciali. Tutt'altro: stesso tempo sostenuto, stessa strumentazione, batteria giusto meno serrata e chitarra ritmica appena meno sincopata, meno alla Nile Rodgers (Chic). Eppure senti che non è parte della stessa canzone, che è coronamento e via di fuga attraverso la sospensione di ogni giudizio. Ritaglio di cielo in cui dovevi per forza tuffarti, nel vanesio tentativo di rimandare la fine e riabbracciare la pioggia di arpeggi che ti ha purificato nei passati 2'10''.
L'intuizione degli Heartbreaks è sostanzialmente quella di far suonare grande il jangle-pop. Se quello dei Chapel Club è (o era, vista la nuova direzione che la band sembra aver intrapreso) shoegaze meets big music, il quartetto di Morecambe riformula l'equazione sostituendo all'estatica trance dei fissascarpe l'esuberanza twee di Orange Juice (c'è lo zampino dello stesso Edwyn Collins nella produzione di Remorseful), Haircut 100 e Smiths. Almeno stavolta, cambiando uno degli addendi il risultato non cambia: musica sublime, eccitante, pienamente a suo agio nell'epicità che contraddistingue una frangia sempre più consistente del pop-rock britannico '10s. Musica la cui massa inerziale reagisce alla forza trainante di un wall of sound che, applicato a un genere solitamente contraddistinto da fragilità costituzionale come l'indie-pop, parrebbe quanto mai fuori contesto. E invece il giocone funziona a meraviglia, anche perché le canzoni energiche, romantiche, coloratissime - vantano scrittura prodigiosa e musicisti dotati. Su tutti il jangler Ryan Wallace (uno che i nativi americani ribattezzerebbero Plettro di Tuono), davvero notevole nel mediare fra compostezza d'esecuzione, velocità e diteggiatura intricatissima, il tutto avvolto dal timbro scartavetrato della sua Rickenbacker.
Nessun cedimento nella scaletta, da qualsiasi angolazione la si guardi. Tanto che si potrebbe chiudere l'analisi track-by-track limitandosi alla pop song perfetta Jealous, Don't You Know (anch'essa ri-registrata per l'occasione, resa ancor più spigolosa e piena), o all'uno-due iniziale Liar, My Dear (con il travolgente vocalist Matthew Whitehouse a gongolare fra registro baritonale, stridule fughe aeree, qualche retaggio del primo Elvis Costello) e l'uptempo Delay, Delay. Ma così si farebbe un torto allo shuffle mutante di Winter Gardens, al singalong celestiale di Polly, ai frenetici spasmi di Gorgeous, all'epilogo in egual misura liberatorio e tristerrimo di I Didn't Think It Would Hurt To Think About You (You can't kick the leaves today darling 'cause it's wet under foot / And you friend subscribe the view I am no good / Still I'd like to express the sincerity of my actions towards you, early on / Is there hope for us?).
E proprio i testi sono complemento inscindibile del portentoso corpus sonoro. Calici che traboccano di vita, gioia, patimenti, amore. Liriche ricercate nella terminologia, accurate e sarcastiche nel riportare telegraficamente il vissuto della vita di provincia (la balneare Morecambe, appunto), gli amori non corrisposti nei quali il singer figura spesso come terzo incomodo (You will meet her by the statue / And you'll tell her what she wants to hear / Don't you know that young hearts bruise so easily?/ And you sound like Billy Liar, my dear da Liar, My Dear), sessualità indecifrabile alla Morrissey, il sogno che tradisce ma nel quale ci si rifugia sempre più incautamente (She said trying to fight the morning off will see me to an early grave / But i've got nothing constructive to do and her favourite popstars misbehaved / We can walk in the settings of our favourite Smiths song / Togheter we can contemplate how it all went... No, I won't say that! da Save Our Souls). L'incontro con la vecchia fiamma Polly ricalca addirittura il copione dell'Alison "costelliana" (My aim is clear... precisa Whitehouse, quasi citando il My aim is true del feroce occhialuto), ed è giusto un cerchio che si chiude. Non sottovalutate questi ragazzi. Non commettete il mio errore. In Funtimes c'è tutto quello che il jangle-pop può e deve (doveva?) essere nel 2012: abrasivo, catartico, maestoso. L'esatto contrario dell'approccio dimesso che va per la maggiore.
Tweet