The Heartbreaks
We May Yet Stand A Chance
Poi non dicano che non se la sono cercata. Replicare un (grandioso) esordio di per sé poco consono ai canoni indie con un sophomore ancora più astruso, che a quei dettami volta clamorosamente le spalle, equivale a un suicidio. Un suicidio sublime, di quelli architettati con puntigliosità e testardaggine. Fato poco invitante, eppure oserei dire bramato, smitizzato con ironia (e magari un pizzico di scaramanzia) nella cover: è il cadavere degli stessi Heartbreaks a giacere nella bara che i quattro trascinano faticosamente lungo una desertshore onirica, tra richiami al Django di Corbucci e "Heaven Up Here" di Echo & The Bunnymen.
Gli attrezzi con cui scavarsi la fossa? Molto brevemente: epica western morriconiana riletta in chiave british; imbarocchimento generale, tentazioni orchestrali, torch songs mutanti; jangle riletto secondo una big music la quale, visti i mezzi dispiegati sul campo, più che big verrebbe spontaneo definire huge. I singoli incarnano come meglio non si potrebbe le nuove direttive, ma guai a fermarsi a questi. Soltanto contemplando il quadro generale potrà notarsi come quel wall of sound chitarristico, cifra stilistica di Funtimes, sia ora articolato in arrangiamenti estrosi e stratificati, con gran dispiego di chitarra classica e slide, qua e là tastiere discrete, passaggi inaspettati (l'allucinazione a tempo di valzer che invade le stanze di Rome, la frenetica Man Overboard ad assimilare tocchi di folk celtico e country-rock come potevano intenderli i Waterboys di Fisherman's Blues) e altrettanti cambi di fronte (il minuto di jam lunare a chiudere Dying Sun). Ciliegina sulla torta uno strepitoso Matthew Whitehouse, mai così crooner e, in alcuni frangenti, mai così maniacale (il suo falsetto su Paint The Town Baige).
Il risultato è un lavoro eccessivo e insieme sofferto, quasi il loro Dog Man Star (Suede). Ovviamente la vivacità contagiosa di Funtimes non è del tutto svaporata (vedasi Absolve e il divertentissimo video), ma soltanto Hey, Hey Lover ne riecheggia il pathos adolescenziale/spensierato. Soprattutto, è il cielo azzurro della balneare Morecambe ad essere ormai un ricordo: grappoli di nuvole minacciose s'addensano all'orizzonte, in un clima spesso e volentieri segnato dalla malinconia (la spartana Fair Stood The Wind, i ricami twang di Bittersweet), dove il registro narrativo è sovente grottesco (gli archi velenosi del capolavoro Robert Jordan, il flamenco di This Is Not Entertainment) quando non funereo (il verso We no longer live, merely exist, sempre da Dying Sun, è abbastanza esemplificativo).
Uno stile, quello in mostra su We May Yet Stand Chance (prodotto da Dave Eringa, conosciuto soprattutto per il lavoro con i Manic Street Preachers) che, pur nelle sue molteplici diramazioni, resta fedele a poche idee di fondo ben delineate, il cui sviluppo rasenta l'originalità assoluta. Lo scarto col disco precedente è marcato, a riprova della (forse inaspettata) maturazione di questi ragazzi, finora artefici di un percorso tutto sommato breve ma che qualitativamente - almeno per chi scrive - ha dell'incredibile (due album, due capolavori). Dispiacerebbe, a questo punto, non vedere un prosieguo per la loro avventura. Ma è il prezzo da pagare, di questi tempi: non sarebbero né i primi né gli ultimi. Spero vivamente di sbagliarmi, e la cosa non sarebbe una novità. Anzi, auguro agli Heartbreaks tutto il bene del mondo giacché, nonostante quanto asseriscono i detrattori (più numerosi che mai), non sono assolutamente una band tra le tante. E questo non è un album tra i tanti. Com'è che si dice in questi casi? Tra i dischi dell'anno.
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