Paul McCartney
McCartney II
Pare che tutte le volte che McCartney senta l'esigenza di ricostruirsi una verginità artistica torni inevitabilmente in solitudine tra le mura domestiche. E' successo così dopo lo scioglimento della sua prima band - i Beatles - succede così dopo lo scioglimento della sua seconda band - gli Wings. Nel frattempo sono passati 10 anni, 10 anni in cui la tecnologia e la globalizzazione hanno portato l'elettronica a diventare protagonista del discorso della musica pop, e al contempo hanno aperto la porta agli "altri suoni" provenienti dalle diverse culture del pianeta. Così McCartney II sarà qualcosa di più che uno stanco sequel dell'omonimo album, arrivato con 10 anni di ritardo. Anzi, fermandoci a giudicarlo dalle atmosfere schizzate e surreali in cui ci imbattiamo ad un primo ascolto, ci verrebbe da pensare che il buon Paul stavolta abbia un attimo esagerato con la sua amata cannabis.
E invece è artista lucidissimo McCartney, che dalla finestra del suo studio si diverte a guardare il mondo all'esterno, per una volta da attore non protagonista: il suo è un vero e proprio saggio di osservazione post-modernista, filtrato manco a dirlo dal suo tipico disincanto sornione; e la protagonista diventa una virtù della quale - almeno tra i Beatles - può vantare quasi l'esclusiva: l'ironia. I pezzi - è vero - sono pieni di sintetizzatori, delay e voci trattate, ma più che synth-pop questo sembra essere un incredibile assaggio di glo-fi ante-litteram: l'intero linguaggio globale della musica popolare osservato dal fondo di una bottiglia, il concept-parodia che avrebbero composto i Residents se fossero stati "scarafaggi", condito in salsa elettro-lo-fi, come fosse un trattato di storia della musica pop generato, idealmente, su una vecchia console Nintendo.
Temporary Secretary è un buon esempio: filastrocca sciocchissima intonata con insostenibile infantilismo in cui si infila un ossessivo sintetizzatore in loop, ovvero il vorticoso battere sulla calcolatrice di una "segretaria part-time" sull'orlo dell'esaurimento, buffo alter-ego della Pocket Calculator con cui i Kraftwerk descriveranno le alienazioni della società computerizzata. Coming Up d'altro canto sembra un funk-soul liofilizzato e sigillato in un sacchetto di plastica. Tutto suona minuscolo (la voce, le chitarre, i sassofoni) come se avessimo inscatolato James Brown e lo stessimo ascoltando dal di fuori. Vecchio e Nuovo mondo chiusi in un frullatore, in bilico tra le origini e la contemporaneità: da un lato si dissotterrano le radici del rock affondando le mani nella musica americana come farebbe Elvis Presley con il wester-country a rotta di collo di Nobody Knows, lo scatenato siparietto anni '40 di Bogey Music e la preghiera gospel di Summer's Day Song; dall'altro ci si apre alla nuova cultura europeista smaccatamente cosmopolita: se Front Parleur è un acquerello lounge all'ombra della torre Eiffell, Darkroom non è che la vignetta sarcastica delle camere oscure in cui si aggira il depresso David Bowie "berlinese", mentre Frozen Jap è esattamente quel che promette: un pezzo di Giappone "surgelato" in Germania. I sapori world sono ancora più sapidi nell'ipnotica Check my Machine (sballo da reggae giamaicano in salsa country/blues/psycho-illogica) e nella circolare Secret Friend (ambient allucinogeno impregnato di malinconia latino-americana), brani pubblicati in origine su singolo, ora disponibili nella nuova ristampa assieme (tra le altre cose) al singolo inedito Blue Sway, euro-funk degli abissi riorchestrato per l'occasione sulle coste del Medio Oriente, uno di quei pezzi che sembra infrangere la barriera della storia per giungere a noi, inaspettatamente, dal futuro. Se è vero che tutti abbiamo un lato oscuro, questo è The dark side of Macca.
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