Everything Everything
Get To Heaven
I'm thinking, what was my password?
As the vultures land (da Get To Heaven)
La parola d'ordine per accedere al Paradiso, sardonicamente dimenticata sul ciglio del baratro. Le tematiche del terzo, virale capitolo Everything Everything potrebbero inquadrarlo a mò di distopico ballardiano o, volendo strafare, adiacente allo sgommare post-pocalittico del redivivo Mad Max, se non fosse che è il presente (in ipercinetico disfacimento) a paralizzare ogni agire e ad essere contemplato con sarcasmo, non un futuro più o meno lontano. A lungo si è discusso del sottotesto politico che anima Get To Heaven (RCA, 2015): lo stesso Jonathan Higgs a NME ha parlato del 2014 come di un anno terribile, con specifiche considerazioni riguardo ISIS, Siria, l'aggravarsi della crisi, etc. Non si capisce però dove sarebbe la retorica/il paraculismo, posto che 1) fin da Man Alive i testi di Higgs, seppur sgonfiati in seriosità grazie a puzzle verbali e lessico immaginifico, si interrogano su temi tutt'altro che di basso profilo, e che quindi massimalisti lo sono sempre stati, oserei dire orgogliosamente; e 2) il risultato non è né mera cronaca né lecchinaggio alle penne più politically-oriented della stampa musicale anglofona, bensì trasfigurazione, teatralizzazione di un momento storico eletto a ultima dark age. A delinearsi è un paesaggio abitato da creature a proprio agio nell'interagire con la tecnologia ma imprigionate nella loro diffidenza/sensorialità animale (I can smell your fingerprints all over my computer da Blast Doors); un nuovo gregge guidato da impulsi primitivi, credenze (il culto del sangue, il sacrificio estremo), che glorifica l'irrazionale come chiave di lettura di un tessuto sociale e politico del quale si rivelano indecifrabili persino i meccanismi più elementari.
Shiftando dall'universale al particolare, siffatta criticità si riflette sul (e muta il) singolo, instillando dubbi circa il valore della sua esperienza. Sono gli EE stessi ad interrogarsi - basta leggere fra le righe - sul significato di quanto raggiunto fino ad oggi (Did you ever think Everything, Everything would change? da Regret), sui loro presunti errori, piangendo lacrime di rabbia e infine trovando rifugio in una maxi-coperta di Linus (l'escapismo di Distant Past). Sono loro a mettersi in discussione, argomentando (sul)la propria agonia e quella di un intero sistema, proprio come il vecchio di Get To Heaven che arde tra le fiamme ma ci guarda col sorriso sulle labbra, fischiettando.
Anche musicalmente Get To Heaven (RCA, 2015) ci confonde, optando per una struttura bipartita piuttosto netta: una prima parte più ariosa e melodica, apparentemente familiare per chi ha seguito le puntate precedenti; un secondo tempo che rimescola le carte e si contorce, fra gli spasmi di passaggi elettronici convulsi, cortocircuiti negativi come la band britannica finora non ne aveva mai concepiti. E, ciliegina sulla torta, pressoché ogni pezzo ha la statura del classico. Di sicuro lo sono i singoli Regret, torpido call and response fra voce solista e coro (qualcuno ha sentito affinità coi Police, altri con la ritmica Motown, e francamente non mi sento di escludere nessuna delle due opzioni) e Distant Past, dove alle tribolate vicissitudini delle strofe s'intersecano, naturalmente in pieno EE Style, oasi eurodance. To The Blade introduce il lotto in equilibrio tra solenni argomentazioni progressive-pop e il drammatico infittirsi/irrobustirsi chitarristico della controparte più math, laddove la Title Track non solo si aggiudica la palma d'oro quale brano più orecchiabile, ma stravince su tutta la linea in materia di elaborazioni afro-pop et smilia.
Lo smaliziato produttore Stuart Price (alias Les Rythmes Digitales, già membro degli Zoot Woman) garantisce quella brillantezza del suono perfezionata in almeno due lustri di frequentazioni tanto ai piani alti della dance-pop +/- mainstream (Madonna, Kylie Minogue, Pet Shop Boys, Scissor Sisters) quanto nel sottobosco indie (Killers, Keane), al contempo esaltando le nervature dell'interplay e la perizia dei singoli. Il chitarrista Alex Robertshaw, in particolare, si conferma maestro di lucidità, inventiva e tecnica (quei micro-assoli alla velocità della luce se li può permettere solo lui), mentre Higgs non solo ritrova il bilanciamento tra registro tenorile e falsetto che difettava su Arc, ma esalta esponenzialmente la drammaticità dell'esposizione (un brano su tutti: No Reptiles).
The Wheel (Is Turning Now) è la porta di passaggio tra due dimensioni, il punto del disco in cui le cose iniziano a cambiare: a metà canzone un minaccioso beat in crescendo fagocita ogni altro elemento, lasciando soltanto loop di voci a perdersi nella nebbia. Da quel momento è un profluvio di macabri videogiochi (le tastierine a 8-bit nella marziale 500 Fortune, il Timbaland riletto in chiave prog di Blast Doors), canoni terminali (No Reptiles, altro brano da tramandare ai posteri), fino ai titoli di coda (il prodigioso incastro basso-batteria di Warm Healer, congedo tra i più desolanti/esaltanti di sempre) che sembrano propagarsi senza sosta, come un morbo.
Gli EE non sono mai sembrati così nervosi, abbattuti, e di certo non hanno mai proposto una musica come quella ascoltata nella seconda tranche dell'album. Il che non equivale a considerare Get To Heaven una dipartita dal loro stile: piuttosto la continua, anche dolorosa, revisione/reinvenzione dei tòpoi di un suono tra i più personali uditi nell'ultimo decennio. I quattro insomma continuano per la loro strada, in apparenza inarrestabili, incapaci di normalizzarsi (esordio in settima posizione nella chart britannica, due posizioni in meno rispetto ad Arc, e di certo non si preannunciano vendite da capogiro), soprattutto consapevoli di non poter incidere sul loro/nostro tempo, sia come individui sia come gruppo musicale. Un tempo nel quale per il rock, con pochissime eccezioni, pare non esserci più (ahimé) un posto, e dove le più accorte personalità del nuovo mainstream - peraltro amatissime dalla stessa band sono le uniche a dare una definizione largamente condivisa, nel bene e nel male, di un presente musicale altrimenti parcellizzabile all'infinito. Impossibile non pensare che il sottotesto di Get To Heaven non contempli anche questi aspetti. Altrettanto impossibile non considerare l'opera, nonostante tutto e tutti, tra le più scomode e illuminanti fotografie di questo 2015.
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