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R Recensione

6/10

Rob Crow's Gloomy Place

You're Doomed. Be Nice.

Il “gran rifiuto” di Rob Crow. La stizzosa ed orgogliosa dichiarazione di indipendenza di uno straordinario artista verso un ingrato microcosmo, quello underground, che per anni ne ha spremuto ed iterato le migliori idee, come da un animale da latte, non concedendogli, d’altro canto, ulteriore e meritato margine di visibilità. La rinuncia al proscenio, afflitta ed irrevocabile (quanto dolore dietro queste parole?). Per un attimo, qualche anno fa, sembrò davvero la fine di una splendida favola, il punto terminale di una storia appassionante e misconosciuta che, partendo dagli Heavy Vegetable, attraversando le effimere esperienze di Thingy, Creedle e Physics, arrivò fino ai Pinback e ai Goblin Cock. Rob Crow, la firma di alcuni dei migliori momenti degli anni ’90 (per gli increduli, eccone una prova), non riuscì ad essere il Neil Young della sua generazione per questioni di opportunità e longevità: eppure, come il mare lavora silenziosamente le rocce, modificandone forma e funzionalità lungo un arco di tempo che si estende indefinitamente per millenni, così la sua chitarra – accompagnando il distacco dei giovani dal grunge sino al post rock e al post-core, marcando da vicino la fioritura del math rock, mitigando spasmi e contratture del decennio con un gusto melodico d’altri tempi – ha dettato, di fatto, le silenziose linee guida di schiere di musicisti.

Era chiaro che, con un passato del genere, il cuore avrebbe presto vinto il divampare dell’emotività ferita, che la passione si sarebbe incanalata verso qualche altra direzione. Con i Pinback in hiatus e la carriera solista temporaneamente archiviata (i Goblin Cock, un po’ a sorpresa, torneranno in pista a settembre, con il terzo e già esilarante “Necronomindonkeykongimicon”), a Rob non rimaneva altro che fare tabula rasa e ricominciare da capo, a capo di una band nuova di zecca, formata dagli amici e collaboratori di sempre. Il luogo in cui si accoccolano i brani di “You’re Doomed. Be Nice.” è realmente cupo: non per la texture strumentale, che pure sembra più frequentemente indulgere in anfratti di malinconia esistenziale (si ascoltino gli archi tormentati di “This Distance” o le uggiose pennellate del mid conclusivo, “What We’ve Been Doing While You’ve Been Away”, l’episodio spiritualmente più vicino alle atmosfere e agli umori di Temporary Residence), quanto per un afflato testuale che, al netto di una schiettezza a tratti spiazzante, non ha paura di trascinare con sé nell’arena i demoni del bandleader (l’isolamento, le problematiche delle relazioni interpersonali, l’alcolismo).

Da un estremo all’altro. Il pezzo che apre la scaletta, “Oh, The Sadmakers”, è assolutamente fulminante, un capolavoro che merita di essere riascoltato in loop per intere ore. A partire da un giro pulito di accordi in 9/8 entra, con discrezione e consequenzialità, l’intera formazione: la cantilena power pop si accartoccia una prima volta già a 1:07, con l’inserzione di una selenica sezione di arpeggi acustici e poi, assai più vistosamente, sul finale, dove le sei corde scartano bruscamente in direzione heavy, chiudendo in un autentico trionfo di breakdown. Sembra impossibile che il nostro quarantacinquenne sia ancora in grado di scrivere brani del genere, ma tant’è. La canzone, col suo piglio anarcoide e il suo dinamismo esasperato, sarà d’altronde destinata a rimanere isolata (con la parziale eccezione delle ombreggiature dispari di “Unreliable Narrator”, slacker matematico acuminato e spigoloso) in una scaletta che – forse per la prima volta nell’intera carriera di Crow – privilegia linearità, potabilità e livellamento. Non v’è nulla di complesso ed avvoltolato nei vigorosi intrecci di “Rest Your Soul” (il pop punk secondo i Pinback), nelle elementari melodie circolari di “Business Interruptus”, in una stanca “Autumnal Palette” che infarcisce di minori e diminuite il piglio di un Costello qualsiasi, nelle velleità della sincopata “Red: Alone” di ricreare il clima di “Fortress”. Tutto è pensato per colpire all’istante: e per funzionare funziona, salvo poi svanire con la medesima velocità. È un contraccolpo pericoloso, che decurta, di fatto, la longevità di “You’re Doomed. Be Nice.”: già dopo cinque o sei ascolti, pezzi come “Paper Doll Parts” (classicissimo mid obliquo à la Crow) o “No Shadow Left Behind” hanno esaurito la riserva di segreti da raccontare.

È probabile che i Gloomy Place, come terreno d’appoggio per la rinascita artistica del factotum, non abbiano prospettive di vita lunga. Chissà che il disco, buono anche se eccessivamente omogeneo, non contribuisca a rinfocolare scintille mai sopite…

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