Merchandise
Children Of Desire
Quante cose si rischia di perdere per strada, se non si tengono le antenne perennemente drizzate (inevitabili i problemi d'erezione, al dì d'oggi...) e ci si sconnette dal presente, anche soltanto per poche settimane. I Merchandise sono una di quelle. Non che il gruppo di Tampa, Florida necessitasse l'arrivo col fiatone del sottoscritto per passare dall'anonimato alle luci della ribalta (il virgolettato è d'obbligo): a metterli in buona luce ci avevano già pensato Pitchfork e NME, stranamente concordi, con la testata britannica che includeva Children Of Desire fra i suoi 50 migliori album dell'anno passato e piazzava la band, ora in procinto di pubblicare l'EP Totale Night attraverso la loro label Night People, in cima alla lista dei nomi più promettenti per il 2013 (in mezzo a tanta spazzatura, ma nessuno è perfetto). Le musica, ancora una volta, continua a fare il suo corso e chi si ferma, cioè chi non osserva & partecipa, è perduto.
E' perciò con petulante sollievo, ma al tempo stesso con un filo d'inquietudine, che mi sono accostato a Children Of Desire, conscio che un pezzetto di grande musica ma chiamatela pure Bellezza, Desiderio, Amuleto Scaccia-infelicità stava per scivolarmi via da sotto il naso pur pascolando in rete da un tot di mesi (il disco è uscito ad aprile 2012). Semplificando all'inverosimile il contenuto di quest'opera seconda, pare d'ascoltare un connubio fra Smiths ma mettiamoci pure House Of Love e con essi parte del catalogo Creation di fine '80s, a metà fra l'indie-pop maturo e lo shoegaze ancora da venire - e primi Mercury Rev, il tutto inquadrato in un'ottica DIY (il terzetto ha alle spalle un passato hardcore punk) che, per una volta, anzichè banalizzare timbri e dinamiche, regala inaspettata profondità e ricchezza sonora.
Sei i pezzi, uno dei quali sotto i due minuti (l'introduttiva Thin Air) e un paio sopra gli undici, per un totale di circa 38 minuti d'ascolto. Una risposta americana alla nuova big music anglosassone? Boh, probabilmente no. Comunque sia, il potenziale di questi tre ceffi è enorme. Se Time è il gioiello pop in cui l'ugola di Carson Cox trasfigura timbro e fraseggio di Morrissey, insinuandosi fra le polluzioni danzerecce della drum machine e il trepidante/elegante assalto chitarristico, Satellite è l'elegia pianistica che si sgomitola fra rumori d'ambiente e strumenti a sbucare dal nulla (gli archi guizzano ferocemente esaltati, le tastiere tappezzano a testa bassa), mentre i due colossi Become What You Are e Roser Park fanno le veci dei Bronzi di Riace: l'uno tuonante, nettamente diviso in una prima metà riffosa/canzonettosa e una seconda delirio rumoristico su battito simil-motorik (qualcosa che supera a sinistra tutto il repertorio A Place To Bury Strangers, alzando pure il dito medio fuori dal finestrino); l'altro, adagiato su un beat '90s inframezzato da rullante organico, sconfina nella trance pura col Farfisa a sorvolare oceani di delay/distorsore e Cox a salmodiare da autentico sorrow's native son.
Peccato che In Nightmare Room sia identica (ma proprio identica!) alla prima parte di Become What You Are, restando l'unico neo di un'opera altrimenti notevolissima. A questo punto dai tre si attendono grandi cose, e sappiamo bene che le aspettative sono più un tarlo che una benedizione. Perdere la bussola, in questi casi, è ben più di un'ipotesi astratta. Non resta che aspettare l'imminente pubblicazione dell'EP e quella, assai probabile, di un nuovo long playing entro l'anno. Solo allora potremo toccare con mano l'effettiva pregnanza di una proposta la quale, val la pena ribadirlo, già ora si pone fra le più interessanti uscite dagli States negli ultimi anni, almeno dal reparto indie & sorroundings.
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