The Jesus And Mary Chain
Psychocandy
Avete presente gli Stooges? Le loro chitarre distorte, i loro geniali ritornelli ripetitivi e minimali, la loro rabbia…bene. Avete presente i Ramones? La loro particolare interpretazione del punk, basata su motivetti scanzonati ed allegri, quasi delle filastrocche elettriche…perfetto. Ora, avete presente gli anni ’80? Il post punk con i suoi ritmi scomposti, l’hardcore con la sua velocità e la sua violenza, il noise con i suoi brani rumoristici, la dark-wave con i suoi suoni cupi e la sua introspezione pessimista…ottimo. Adesso prendete tutti questi elementi, mescolateli a piacimento e aggiungetevi un solo, geniale, decisivo particolare: un vero e proprio muro sonoro di feedback che impregna fino all’osso ogni singolo brano. Stiamo parlando di un tipo di rumorismo non creato da sofisticate dissonanze, arditi contrappunti o chissà che…Semplicemente: schiacciate il pedale del distorsore, pompate il volume al massimo ed ecco fatto: puro rumore. Vi sembra una cosa banale? Direi proprio di no a sentire l’incredibile, fulminante esordio dei Jesus and Mary Chain, quell’impressionante esperienza sonora che è Psychocandy.
I nostri quattro wavers scozzesi sembrano infatti aver attinto a piene mani dalle esperienze musicali passate, quelle citate qui sopra per l’appunto, cosicché il loro sound risulta essere un perfetto surrogato di tutto quello che poteva andare per la maggiore nel 1985. I brani dei Jesus and Mary Chain quindi potrebbero apparire come profondi debitori di pezzi come I Wanna Be Your Dog, No Fun (Stooges), I Don’t Care (Ramones) e via dicendo, ma, guarda caso, non è assolutamente così. La loro originale interpretazione fa di tutto questo un enorme calderone da cui attingere per prendere innocenti spunti. Ma il pregnante uso di distorsioni, seppur banale, risulta essere realmente fondamentale, così fondamentale da ispirare le future schiere dei cosiddetti shoegazers, segnando la nascita di un nobilissimo genere a sè stante.
Just Like Honey è il vero manifesto del gruppo, e ci fa subito assaporare un’irresistibile atmosfera psichedelica, presente in maniera consistente in tutto l’album. Il battito ipnotico e rimbombante della batteria, le chitarre distorte e la voce diffusa, calda e sensuale di Jim Reid, creano questa atmosfera dalla così pregnante e densa dolcezza, “come miele” per l’appunto, capace di catturarci all’istante. Anche l’elemento dark non è da sottovalutare, visto l’incedere cupo del basso e l’umore non proprio solare caratteristico di Psychocandy.
Sullo stesso versante di questo primo grande brano, vi sono altre preziose composizioni delicate e psichedeliche, capaci di conferire una elevata raffinatezza all’album. Ascoltiamo quindi la trascinante The Hardest Walk, capace di fondere piglio pop a fragorosi feedback, poi la bellissima Cut Dead, intrisa di delicati accordi di chitarra elettrica, che ci avvolgono in un’atmosfera tanto trasognante quanto malinconica, la delicata Some Candy Talking, impreziosita qua e la da un uso discreto di distorsioni che ne esaltano la melodiosità, conferendole più vigore, ed infine quella che sembra essere la copia di Just Like Honey: Sowing Seeds.
Ma sono altri i brani che rendono così irresistibile l’album, e così il lento fluire delle note della prima composizione si fa subito sovrastare dalla ferocia di The Living End, la seconda traccia. Eccoli qui i famosi nugoli densi e assordanti di distorsioni che stridono, si contorcono, ribollono, graffiano, lacerano…insomma devastano letteralmente quello che altrimenti sarebbe un pezzo pop. La batteria incalzante di Bobbie Gillespie non lascia un attimo di tregua alla voce decadente di Reid, ed il basso è l’unico elemento che mantiene un contatto tra le sfuriate chitarristiche e la melodia di base su cui queste si sviluppano. Sullo stesso piano di questa seconda traccia, veloci e sfrenate, ci sono la violentissima In A Hole, che procede in un sempre più fitto intricarsi di suoni assordanti, la ramones-iana Never Understand, e la meno brutale My Little Underground, memore degli echi dei Velvet Underground.
Splendide poi le tracce in cui risaltano sonorità maggiormente oscure, dipinte da uno splendido basso, rigorosamente fedele alle cadenze alla Joy Division e compagni, capaci di regalare un nuovo volto rumoristico al dark. Ascoltiamo quindi pezzi quali la granitica Taste The Floor, retta da un implacabile ritmo della batteria, e sfregiata dagli accordi affilati come coltelli del chitarrista, A Taste Of Cindy,o la cavalcata horror di Inside Me, e ovviamente la conclusiva It’s So Hard, forse la più tipicamente dark, grazie all’indimenticabile basso e alla voce spettrale del cantante.
Arriviamo alla fine dell’album entusiasmati, sconvolti, frastornati e con parecchi decibel in meno.
A questo punto è d’obbligo la domanda: avete presente un capolavoro?
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