Shout Out Louds
Work
Ci sono cose che non hanno una spiegazione plausibile. Ci puoi girare attorno con giustificazioni sofistiche e variamente interessanti, ma non le spiegherai mai a fondo. Perché Studio Aperto si definisca un telegiornale. Perché la Gelmini sia ministro dellistruzione. Perché gli Shout Out Louds non siano trasmessi da mezze radio del globo. Perché "Impossible" non sia stata proclamata per decreto regio una delle cinque canzoni pop più belle degli ultimi anni. Niente. Inspiegabile.
Eppure non è nemmeno giusto abbandonarsi al dominio dellirrazionalità, che è quanto hanno pensato anche gli Shout Out Louds, se, dopo due dischi di estroverso e iper-colorato guitar-pop (Howl Howl Gaff Gaff, 2003; Our Ill Wills, 2007), hanno deciso di smorzare lincontrollabile espansività un po naïf del loro suono per concentrarsi su tonalità più mature e mirate. Conta molto, per questa maggiore sobrietà sonora, il lavoro in fase di produzione di Phil Ek (Fleet Foxes, The Dodos, The Shins): sembra che il caleidoscopio pop policromo degli svedesi sia stato messo improvvisamente a fuoco, per un effetto assai più elegante ed essenziale (Spoon!). Rispetto ai dischi precedenti qui cè meno fanfara svagata, ci sono meno stonature di Adam Olenius, meno campanelli, meno friccherie sbadate, e si allontana, con tutto ciò, anche lo spettro di Robert Smith e dei Cure più solari che aveva accompagnato a braccetto i primi passi della band nel mondo del pop.
È unimplosione più che unesplosione, dunque, quella di Work (confrontate questo titolo con Howl Howl Gaff Gaff: si sono dati un tono, no?), ma lesito è tuttaltro che controproducente. La scrittura di Olenius e compagni continua ad essere sfavillante e disinvolta nel suo estrarre con grande facilità melodie deliziose (e semplicissime) e nel saperle gestire (Work, appunto) con somma maestria. Così, spesso, i pezzi tendono a posticipare lattacco del refrain, tenendo le strofe come in sospensione (in Walls aiuta un tappeto di fiati, fino allo sfogo del minuto finale; struttura simile per 1999 e Candle Burned Out), mentre altrove sono minimali frasi di chitarra a farsi leitmotiv: Play The Game, delicata mid-tempo immalinconita dagli archi e tutta indirizzata al crescendo finale, ne è un esempio eccellente. Moon, invece, col suo passo sciancato che si scioglie solo a metà brano, sembra chiedere ospitalità alla truppa di certo folk rock bandistico recente (Fanfarlo).
Il resto, niente di più niente di meno, è pop. Di quello che non è facilissimo trovare dove dovrebbe essere (radio? tivù? argh...): Fall Hard, con i controcori di Bebban Stenborg, è lapice del disco, anche per l'icastico testo di amore europeista ai tempi degli Erasmus («sitting and smoking belgian cigarettes in a restaurant with a famous dutch, yes I know its not forever, no its got to stop, sitting next to central european monuments, but driving all night on the Grand Highway»), e potrebbe essere in heavy rotation in qualsiasi emittente radiotelevisiva del continente.
Potrebbe. Se non fosse che il mondo è pieno di cose inspiegabili.
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