British Sea Power
Valhalla Dancehall
Forse col senno di poi ho giudicato un po' frettolosamente la carriera dei British Sea Power successiva all'incantevole esordio The decline of the British Sea Power (2003). Rimango dell'idea che il pop magniloquente alla Echo & the Bunnymen di Open season (2005) e Do you like rock music? (2008) rimanga inferiore alle turbolenze power-pop e post-punk dell'esordio, però è sbagliato pensare che quella successiva non sia una fase dignitosa e a suo modo elegante e raffinata per la qualità delle composizioni musicali che la costituiscono.
Nota a parte il primo motivo di giubilo per Valhalla dancehall è il ritorno ad una più accesa eterogeneità (è un caso la presenza in produzione di Graham Sutton, già al lavoro lo scorso anno sul sorprendente Hidden dei These New Puritans?) che rimescola diversi mazzi di carte, rispolverando addirittura la virulente frenesia del primo disco, con quelle isterie energetiche e stilettate post-punk dei Pixies sparse qua e là (Thin Black Sail, Stunde Null), anche se appesantite talvolta da riffoni “realmente” britannici (Who`s In Control).
Altra presenza consistente quella di varianti del post-rock: gli 11 minuti di Once More Now ne sono l'esempio più consistente, ma si gioca molto tra i generi unendo slo-core e dream-pop in Baby (anche se l'effetto è un po' troppo stantìo e impalpabile) o aggiungendoci un soffio caldo di shoegaze nell'ammaliante Cleaning Out The Rooms.
C'è poi l'episodio anomalo ma riuscito di Mongk II: voce filtrata secondo le modalità classiche del dark e arrangiamenti waveggianti, con l'impressione di sentire un elegante brano in stile Echo & The Bunnymen come avrebbero voluto farlo gli ultimi poco ispirati Interpol.
E infine l'immersione nel variegato mondo alt-pop, in bilico tra tendenze sad-rock alla Greg Dulli (We are sound), solarità estive e frizzanti (Living Is So Easy, Observe The Skies) e sentimentalità glam barcollanti tra David Bowie, Suede ed i persistenti Echo & the Bunnymen (Luna, Georgie Ray).
Forse il limite più grande è proprio qui: nella mancanza di spunti melodici di rilievo in grado di spiccare e far ingranare una marcia in più a Valhalla Dancehall. I British Sea Power confermano di raggiungere i risultati migliori quando lasciano scorrere libero il loro estro creativo, che ciò porti a strumentali semi-sperimentali o ad un ritorno alle ingenuità vitalistiche dello spirito punk. La fissazione di voler scrivere la canzone pop perfetta è comprensibile e porta a risultati di rilievo (la ballatona Georgie Ray ad esempio), ma sulla lunga appesantisce il disco con puri riempitivi (Heavy Water), togliendogli personalità e dinamicità.
Nonostante questi limiti Valhalla Dancehall appare senza dubbio il miglior disco prodotto dal gruppo dopo l'esordio spumeggiante di The decline of the British Sea Power. Il che basta e avanza.
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