R Recensione

8/10

Piano Magic

The Troubled Sleep Of Piano Magic

Piano Magic è il sonno guaritore a cui si chiede conforto mentre tutto va in frantumi e lo spettro di un futuro ostile tuona contro le finestre. È la trasfigurazione dell’attesa, quando cessa di costituire l’espediente per prolungare le illusioni della giovinezza e diviene la condizione di volontario esilio in cui decidiamo di trascorrere la nostra esistenza. È un rigurgito new wave che sposa la rarefazione estrema dello slowcore e le cadenze dilatate del post-rock. È la malattia e la sua cura. La fotografia di ciò che era e non è più. La nostalgia per le false promesse a cui si fingeva di credere solo per cortesia. L’esistenzialismo che si guarda allo specchio e si scopre invecchiato ma ancora tremendamente attuale. Quel luogo freddo ma curiosamente ospitale in cui l’estetica gothic e le cornici squadrate del synth-pop si compenetrano e si confortano vicendevolmente, in un disilluso abbraccio che tenta di sottrarci al dolore e, in ultimo, alla morte.

Il cammino ormai decennale che ha portato il chitarrista e cantante Glen Johnson a lasciarsi alle spalle l’algido sperimentalismo elettronico degli esordi per abbracciare l’ampio respiro melodico di capolavori come “The Troubled Sleep Of Piano Magic” (2003) o il definitivo “Disaffected” (2005) è sintomatico di una necessità quasi fisiologica di immergersi in un recente passato che viene eletto a simulacro di verità pressochè intangibile. È infatti nei massicci ed eclettici rimandi wave che il combo trova la dimensione ideale, quella in cui l’impalpabile onirismo dei Cocteau Twins si congiunge con la fisicità delle ritmiche organiche, le geometrie emozionali di Joy Divison e Cure, trame acustiche in odor di Red House Painters, fino ad andare alla deriva in un oceano di feedback tenebrosi che, a tratti, non esitano a mostrare (inconsapevoli?) ascendenze acide.

In “The Troubled Sleep Of Piano Magic” la creatura di Johnson resta così sospesa fra due mondi: quello della memoria ed un presente asfittico in cui ogni gesto ha smarrito ogni valenza ontologica al di fuori di un mero attaccamento all’idea perduta di sè, alla celebrazione dei sogni che restano tali. Le reminiscenze di ‘80s e ‘90s non sono altro che l’espediente a cui aggrapparsi per perpetuare quest’allucinazione, per evitare il confronto diretto con un mondo inafferrabile e in ciò convincersi di essere nel giusto, di non buttarsi via.

È la chitarra il vero strumento guida, il corpo da esplorare e “sentire”, sia quando cede alle lusinghe del fraseggio (la slide sinistra ed incorporea che tesse le fila di “The Tollbooth Martyrs”) sia quando, sovente, s’inalbera in quelle infinite modulazioni sovraccariche di delay che sono il lascito più evidente dei grandi Durutti Column (l’iniziale “Sainte Marie”). È poi la voce dolcemente smarrita di Angéle David-Guillou (Klima) a dare un volto femminile alla solitudine che pervade il paesaggio innevato di “Help Me Warm This Frozen Heart” o alla pudica sacralità di sublimi ballate come “The Unwritten Law” o “Comets”, a dimostrazione di come Johnson, oltre che fine ideatore di suoni ed eccelso autore, sia anche e soprattutto un maestro nel selezionare collaboratori preziosi (anche se spesso occasionali) con cui arricchire lo spettro cromatico del sound.

Scorrono così tristi carillon di immagini dimenticate (“Luxembourg Gardens”), istanti congelati in cui i sensi si annientano nella purezza di un sospiro (“The Teacher’s Son”) o dolenti flashback che trapassano le carni (il goticismo esasperato di “The End Of A Dark Tired Year” o la catarsi di “When I’m Done, This Night Will Fear Me”). Si spenderà, con eccessiva leggerezza, il termine “ghost-rock” per incasellare il coacervo di suggestioni e suoni che si sprigiona da questi solchi, ma la realtà è che le definizioni contano davvero poco di fronte a brani in cui la spessa, “pornografica” coltre percussiva dei Cure (e, più in generale, del gothic inglese dei primi ‘80s) collide con gli schematismi soporiferi tanto cari a Low o Codeine e, quasi per magia, trova in questo sodalizio un nuovo senso, una nuova identità.

“The Troubled Sleep Of Piano Magic” è forse il primo album in cui Glen Johnson plasma con compiutezza la fisionomia del suo sound, un sound tanto filologicamente passatista nelle intenzioni quanto originale nei risultati. Mancano all’appello i flirt con il synth-pop (Depeche Mode e New Order in primis) e le citazioni elettroniche tipicamente “kraftwerkiane”, ma per quelli basta dare un ascolto al già citato “Disaffected”, il perfetto manuale da sfogliare per chi avesse ancora dubbi sull’unicità e le mille sfaccettature del suono Piano Magic.  

Anche così, ad ogni modo, la musica qui proposta riesce come poche – pur non ponendosi (e per fortuna) in un’ottica propriamente modernista – a leggere le nostre angosce, i nostri dubbi, restituendoci la purezza delle forme antiche, per certi versi “contaminata” dall’esporsi all’erosione degli anni. Una musica che sembra aver perso la coscienza della realtà, dove il tempo non è altro che la triste, inesorabile fotocopia di se stesso. Raramente il sonno della ragione ha generato “mostri” talmente incantevoli.

V Voti

Voto degli utenti: 8,4/10 in media su 9 voti.
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Cas 8/10
4AS 7/10
giank 9/10
REBBY 8/10
brian 10/10
gramsci 8,5/10

C Commenti

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Cas (ha votato 8 questo disco) alle 21:14 del 24 aprile 2008 ha scritto:

ancora nessun commento?

ottima recensione, in grado di fornire una superba chiave di lettura per chi non sapesse da che parte prendere (o ascoltare) questo lavoro! tra le grandi cose fatte nel primo decennio del 2000...

4AS (ha votato 7 questo disco) alle 12:49 del 18 febbraio 2010 ha scritto:

Sia questo che "Disaffected" presentano gli stessi difetti. Discreto