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R Recensione

7,5/10

Manic Street Preachers

Journal For Plague Lovers

«A life spent making mistakes is not only more honorable, but more useful than a life spent doing nothing» (George Bernard Shaw). Con questa epigrafe è suggellato “Journal For Plague Lovers”, il nono disco dei Manic Street Preachers. Quasi a mettere le mani avanti, ad anticipare possibili critiche (oltre che a sottolineare la bellezza delle vite sperimentali), perché i Manics sapevano che sarebbero usciti con il loro disco più controverso. Discusso, chiacchierato, delegittimato, già prima che potesse vedere la luce.

I Manics sanno che almeno un capolavoro lo hanno scritto: si chiama ‘la sacra Bibbia’ ed è uscito nel 1994. Quindici anni dopo i tre gallesi hanno voluto dichiaratamente riprendere le fila da quel disco, l’ultimo composto da cima a fondo con il contributo di Richey Edwards. Stessa artista scelta per il quadro di copertina (Jenny Saville), stessi caratteri tipografici con R rovesciate (già, in realtà, nell’ultimo “Send Away The Tigers”), stesso ricorso a sample vocali per iniziare o chiudere i pezzi, stessa ricerca della ruvidezza, qui grazie alla produzione di Steve Albini (con Dave Eringa). E già così la mossa appare rischiosa, per passatismo e autocitazionismo. Ma i Manics hanno fatto di più: hanno ripescato i diari di Richey Edwards e utilizzato i suoi testi. Quelli che rendevano la Bibbia una raccolta schizofrenica di rabbia e disperazione, espressionismo visionario, crudezza. Quelli che erano, con la Bibbia, cosa sacra.

I Manic Street Preachers, che devolvono ancora il 25% dei loro ricavi all’amico scomparso nel nulla, sfruttatori? Sanguisughe capaci di servirsi della memoria di Edwards per rilanciare una carriera in progressivo appannamento? Hanno rischiato di sembrarlo. Ma lo hanno fatto sapendo che Edwards era nietzschiano: al di là del bene e del male, fuori dalla morale. L’hanno fatto con il rischio dell’errore. Il risultato è ottimo – il loro miglior disco dell’ultimo decennio. Il resto non conta. La memoria è rispettata. E la vita, dice Shaw, diventa persino più onorevole.

Journal For Plague Lovers” non somiglia, checché se ne dica, a “The Holy Bible”. Non ne ha la rudezza rugginosa, il pugno chiuso, la scontrosità, l’antiarmonia, il suono ferrigno, se non nella ghost track “Bag Lady”, che sembra un out-take della Bibbia. Ne eredita, invece, lo sdegno rappreso, autodistruttivo; l’estetica di Richey. Musicalmente è un lavoro che rimane nel regno del rock radiofonico, dei riff al posto giusto, di una produzione scientifica e di ritornelli incisivi, con la differenza, rispetto ai dischi che l’hanno preceduto, di un’energia più concentrata e potente.

La maggiore efficacia di questi pezzi nel confronto coi Manics più recenti è dovuta, a ben vedere, proprio alla scelta di rifarsi agli appunti di Edwards. Il vecchio (anti)ideologo della band ha infatti lasciato annotazioni brevi, slegate, densissime, folgorazioni istantanee, con cui era impossibile costruire canzoni dotate di una struttura complessa e di una certa lunghezza. E così ne escono brani stranamente brevi per la media dei Manics: 7 canzoni su 13 sotto i 3 minuti, una sola sopra i 4. Ed è una sintesi che dà carica, non lascia momenti di stanca, fa filare il disco in modo sublime.

Non uno dei pezzi più ruvidi è sbagliato. Nerboruto l’attacco di “Peeled Apples”, con una batteria vigorosa e un riff scartavetrante; grezza la title track (la più ‘biblica’ tra le tredici tracce); epica nel suo passo zoppicante “All Is Vanity” (spesso è il bello della vita a farci crollare: «it’s not what’s wrong it’s what’s right»); disco punk d’alluminio “Marlon J.D.”; scheggia ghignante “Pretension/Repulsion”. I momenti più melodici (“Me And Stephen Hawking”, “She Bathed Herself In A Bath Of Bleach”) non abbassano la tensione. (E date un occhio ai titoli, che ne vale la pena: i Manics si confermano tra i migliori titolisti di sempre. Ed è un’arte).

Le tregue mancavano nella Bibbia, qui no. Ed è un’altra differenza che però non guasta. Qualcosa dell’acustica malinconica di “Small Black Flowers That Grow In The Sky” (da “Everything Must Go”) si riversa nelle spire di “This Joke Sport Severed” – con interventi orchestrali – e “Facing Page: Top Left”, con arpa elegiaca. Mentre non si capisce perché lo stonatissimo Nicky Wire debba cantare (in “William’s Last Words”, unica pecca, anche perché il pezzo non è male), “Doors Closing Slowly” appare uno degli apici, per pregnanza lirica («Who threw the first stone if the stone is you?». Cazzo, Richey, grazie) e resa sonora, con un Bradfield introverso e un Moore che colpisce la batteria con un’indolenza piena di odio.

I testi parlano di consumismo disumanizzante, solitudine profonda, autolesionismo per espiare colpe ignote («Bruises on my hands from digging my nails out»), esteriorità vacua ad abbellire un’intima insignificanza («Fragrance my escort of no meaning»). Non c’è un verso che non faccia riflettere. È cosa da pochissimi lì fuori. Nessuna foto della band nel libretto del cd. Solo, al centro, una foto di Richey.

I Manic Street Preachers hanno rischiato tantissimo. Potevano fare a meno. Ma per fortuna hanno letto Shaw.

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Voto degli utenti: 7,8/10 in media su 8 voti.
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Mopy 9/10
denis 10/10
Stipe 10/10
mavsi 7/10

C Commenti

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ozzy(d) (ha votato 7 questo disco) alle 1:28 del 25 maggio 2009 ha scritto:

Pur non essendo un loro grande fan mi è piaciuto, credo sia il loro migliore dai tempi di "holy bible".

denis (ha votato 10 questo disco) alle 18:42 del 6 giugno 2009 ha scritto:

grazie francesco per l'ottima recensione...

amo i manics, negli anni 90 mi hanno salvato la vita. concordo con te sul rischio, ma ne valeva la pena. questo è il loro lavoro più bello dai tempi della "bibbia"...ispirato,vibrante,crudo.nicky è stonato,si, ma così commovente su "william's..."immensa band.

REBBY (ha votato 5 questo disco) alle 13:12 del 6 luglio 2009 ha scritto:

Honest & professional rock. Nothing special, but not bad. Not for me anymore!

DonJunio (ha votato 7 questo disco) alle 13:06 del 16 luglio 2009 ha scritto:

Buon disco. La mano di Albini si sente, ma anche la scrittura in alcuni tratti e' brillante.

denis (ha votato 10 questo disco) alle 21:59 del 21 luglio 2009 ha scritto:

non avevo votato nel precedente commento, perchè avevo appena acquistato l'album...voto dopo attenti e ripetuti ascolti: confermo che secondo me è il migliore lavoro dai tempi di "the holy bible" (a pari livello con "everything must go", anche se stilisticamente sono molto diversi)...con "all is vanity" sembra di tornare indietro di 10 anni fa! la mano di albini si sente, è vero...ma le canzoni si reggono in piedi da sole. voto 8,5

Utente non più registrato alle 13:20 del 3 dicembre 2009 ha scritto:

E sono stata fin troppo buona col voto. Album di una retorica stucchevole. Il gruppo di If you tolerate this (cantata anche da Thom nei concerti per HTTT) com'è riuscito a partorire un mostro così? Madò.

Dr.Paul alle 14:47 del 3 dicembre 2009 ha scritto:

ma qual'è un gruppo antiretorico? e un gruppo che nn partorisce mostri?

Utente non più registrato alle 15:57 del 3 dicembre 2009 ha scritto:

RE:

Qual è non vuole l'apostrofo. Uh quanti ne sono!

Utente non più registrato alle 21:32 del 3 dicembre 2009 ha scritto:

Addirittura sei andato a vedere sul forum dell'accademia della crusca! E certo che non ammazza nessuno(a parte l'italiano ovvio). Ma parliamo di niente.

Dr.Paul alle 21:36 del 3 dicembre 2009 ha scritto:

ma xche il tuo "uh quanti ne sono" che è italiano o cispadano?

aspetto fiducioso l'elenco eh...