R Recensione

6/10

Ash

Twilight Of The Innocents

Ammetto di essermi accostato con molta diffidenza al sesto disco degli Ash, uscito a tredici anni dal loro debutto, a undici dal successo delle varie “Girl From Mars”, “Goldfinger” e “Oh Yeah”, a tre dall’ultimo non esaltante “Meltdown”. È una parabola strana, la loro, nella scena rock d’oltremanica, destinata a qualche inatteso picco (come quello di “Burn Baby Burn” nel 2001) nell’ambito di una sopravvivenza ormai sostanzialmente marginale. Non che questo disco sia destinato a riportarli in auge, ma almeno dimostra che i tre di Downpatrick hanno ancora qualcosa da dire. (Hanno appena trent’anni, d’altronde, c’era da augurarselo, a meno che la “teenage lobotomy” annunciata in “Kung Fu” non fosse andata in porto).

La realtà è che raramente i nordirlandesi hanno cambiato la propria ricetta. Gli Ash erano, sono e saranno così: più energici del britpop, più sdolcinati del punk, più melodici dell’hardcore, ancorati a un limbo pop-rock che ama alternare pezzi spediti a lentoni pomiciosi, sempre più vagamente adolescenziali e sempre più pacificamente mainstream, senza la minima intenzione di ripescare le sfumature americane che hanno fatto del loro esordio la loro cosa meno radiofonica e senza la minima traccia di influenze dell’indie-rock britannico degli ultimi anni. Gli Ash hanno il loro marchio.

Nella prima parte del disco il marchio è esposto: “I Started A Fire”, “You Can’t Have It All” (il primo singolo) e “Blacklisted” sono tipici pezzi alla Ash, con chitarre taglienti, ritmo sostenuto, rullate punkettose, melodie spudorate e struttura regolare, con strofe ritornelli e assoli al loro posto.

“Polaris”, poi, è il solito pezzo mid-tempo, cadenzato da un piano alla Coldplay e potenziato da abbondanti dosi di zuccherosi archi. I diabetici ne stiano alla larga.

Nel mezzo l’album cala un po’, ma non è una novità: solo “1977”, direi, non aveva pezzi riempitivi. Spicca la banalità di “End Of The World”, che i tre potevano cedere ad Avril Lavigne con larga soddisfazione degli adolescenti di mezzo mondo. Bene, invece, l’aria un po’ glam (alla Manic Street Preachers) di “Ritual”, accompagnata da un riff che causerà qualche guaio se e quando arriverà alle orecchie di qualche Police: la somiglianza con quello di “Every Breath You Take” è smaccata.

Fin qui, niente di speciale. Ma è la seconda parte che stupisce in positivo: “Princess Six” ha un’aria un po’ garage-rock che ricorda i primi Mansun, così come l’oscura “Shattered Glass”. “Dark And Stormy” è forse la cosa più interessante del disco: ingrigita, marcata da una chitarra più discreta del solito, sa di viaggio estivo per paesaggi in ombra, con un organo sullo sfondo a rendere un clima neghittosamente eighties. Voto alto. Il finale, infine, è una lunga title-track caratterizzata da intrusioni elettroniche più insistite (l’attacco, per dire, potrebbe essere quello di un pezzo dei Pet Shop Boys): non male, se non altro coraggioso.

Dubito che per gli Ash ritorneranno i tempi in cui milioni di ragazzine punkeggianti urlavano i loro nomi. Il loro problema, oggi, è proprio quello di trovarsi un pubblico: gli adolescenti di oggi, nati nell’anno del loro esordio, badano ad altro, gli adolescenti di allora (come chi scrive) pure, i non adolescenti di oggi e di allora faticheranno a trovare un disco destinato agli scaffali più infimi dei negozi più sordidi o, magari, fra appena qualche mese, ai cestoni trash delle offerte a quattro euro. Ma, a ben vedere, è un peccato: l’album è tra i più ascoltabili tra quelli degli Ash post “1977” e non sfigura nel panorama non eccezionale, per non dire deludente, del pop-rock britannico di oggi.

V Voti

Voto degli utenti: 4/10 in media su 2 voti.
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C Commenti

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DonJunio alle 8:41 del 18 luglio 2007 ha scritto:

li ho sempre odiati..

..e non credo ascolterò quest'album. Bella recensione come sempre, però.