Biffy Clyro
Puzzle
Brutta bestia, la discografia.
Succede che formi un gruppo, magari nel Regno Unito, da sempre preda di band brit pop/rock l’una il clone dell’altra (i Pulp sono esistiti una volta sola), oppure di improbabili complessi pseudo-garage, salutati come i salvatori del genere ed i salvatori dei fasti più antichi e gloriosi, quelli “di un tempo” (come se, quel tempo, appartenesse formalmente a milioni di anni luce fa).
Succede che suoni per anni, molti anni: magari te ne esci con dei cd meravigliosi che la critica decanta e il grande pubblico non vuole conoscere. Poi, sempre quelle tre o quattro persone, vanno a scardinare dal podio degli intoccabili nomi dell’ingombrante calibro di Nirvana e Rush, li uniscono assieme e definiscono in questa maniera il tuo modo di pensare, partorire e suonare la musica. Onori profusi e imbarazzanti silenzi a parte, i soldi ancora non arrivano.
Che fare, allora? Semplice: ammorbidire e omogeneizzare il suono.
Si può sintetizzare così l’ultradecennale storia dei Biffy Clyro, trio scozzese dedito ad un ipercinetico garage/progressive rock dagli arrangiamenti estremamente complessi e dai cambi di tempo curati e mai banali. Colti, intellettuali, sempre alla ricerca di nuove soluzioni e di nuove sonorità, con quel fascino che solo il talento inespresso può regalare, riuniti sotto un nome puramente casuale e fantasioso: ecco così che nel 2000 e nel 2003, rispettivamente con “Blackened Sky” e “The Vertigo Of Bliss”, i Biffy avevano fatto breccia fra le reazionarie maginot della stampa anglosassone.
Ora, parlare di questo nuovo “Puzzle”, a tre anni dall’ultimo “Infinity Land”, può essere quantomeno problematico. Perché, conoscendo i precedenti degli scozzesi, e sapendo l’enorme potenziale di cui i tre dispongono, ci si chiede francamente quale sia il motivo di queste tredici, nuove canzoni, se non il tentativo di aprirsi ad una platea più ampia per conquistare, in contemporanea, un maggiore successo economico.
Sparite le contorsioni strumentali, livellati i dislivelli armonici, ammorbidita quella particolare ruvidità grunge che rendeva il tutto più avvincente, attuata una pulizia ed una cura sonora senza precedenti: i Biffy tentano il colpo grosso e non lo negano affatto. Ed è un peccato, perché la particolarissima opener “Living Is A Problem Because Everything Dies” (cobainiana già dal titolo) con quegli archetti, mortali nel loro zigzagare confuso, e quelle aperture sinfoniche pompose e vigorose allo stesso tempo, era un biglietto di presentazione eccellente –se solo ci fossero state più chitarre!-. Un po’ come se un’orchestra venisse catturata e rinchiusa dentro una gelida fornace. Una nuova “Smells Like Teen Spirit”, futurista, dove i wah wah delle chitarre si trasfiguravano nei cigolii dinamici dei violini, e l’urlo esistenziale di Kurt Cobain si plasmava nel cantato chiaroscurale di Simon Neil.
Proprio Neil è la croce e la delizia dell’intero “Puzzle”: se, da un canto, le sue doti vocali non possono certo essere trascurate, dall’altro la sua eccessiva limpidezza, anche e soprattutto nei toni più alti, riduce di molto l’impatto assassino di chitarra e basso, già di loro meno feroci del consueto. Ecco quindi che spunti realmente interessanti come “Who’s Got A Match?”, con il suo ritornello corale a metà fra un certo brit rock novantiano e alcuni episodi dei Queens of the Stone Age, oppure il leggero emocore di “A Whole Child Ago”, o ancora “The Conversation Is…”, dal suo forte impatto a metà fra i Rush e i migliori episodi di power-pop a stelle e strisce, vengono ridimensionati, in peggio, proprio da un cantato troppo soffice e delicato dove, al contrario, servirebbe una tonalità più aggressiva. Curioso notare, invece, come potenziali singoli, semplici ed orecchiabili, del calibro di “Saturday Superhouse” (ispirata, in parte, da una matrice di stampo Weezer), o l’eccessivamente lunga semi-ballata “As Dust Dances”, presentino al loro interno delle progressioni strumentali davvero non male, sia in crescendo che in decrescendo, quasi a ricordare che, sotto la nuova patina, esiste ancora uno spirito inventivo e sperimentale.
Ma se, fino ad adesso, il cd si era lasciato ascoltare piacevolmente, senza sussulti particolari, positivamente e negativamente parlando, il discorso cambia leggermente con il progressivo addentrarsi all’interno del lavoro. Sapere che tra “Blackened Sky” e “Puzzle” sono passati appena sei anni, certamente, non aiuta a capire il perché di canzoni come “Folding Stars”, che sembra una (brutta) summa di quanto ascoltato finora, con tanto di strenne natalizie, o la sconcertante “9/15ths” che, a dirla tutta, con le sue atmosfere ossessive tipicamente post rock, non sarebbe per niente un pezzo malfatto, se non fosse per il fatto che le sviolinate sono esattamente quelle già sentite in apertura con “Living Is A Problem Because Everything Dies”. Siamo proprio sicuri che nel 2001 i Biffy sarebbero scesi a tali compromessi?
Forse, questa, è una domanda che rimarrà insoluta, perché i Nostri paiono accorgersi della flessione stilistica e, nel finale, piazzano in calcio d’angolo un trittico che risolleva abbondantemente la media del lavoro. Dapprima la meravigliosa “Semi-Mental”, un compendio su come davvero si deve usare una chitarra elettrica, nel 2007, che risente della lezione nirvaniana e delle schitarrate, piene e fulgide, di stampo stoner, eccezion fatta per l’onirico finale; poi, la particolare “Love Has A Diameter” che, in un serraglio ritmico sostenuto, unisce l’etereo romanticismo del post rock di ultima generazione con la new wave dei Joy Division; infine, “Get Fucked Stud”, con il riff d’apertura acido e arzigogolato che apre il sipario su un bel brano rock, ricco di suoni e di cambi di tempo.
La conclusiva “Machines” segna la fine anche per questo capitolo dei Biffy Clyro. Un album discretamente bello, ma non certo coraggioso: un lavoro che, messo al confronto coi precedenti, sfigura, e non poco. L’ennesimo "bell’album e basta" di questo 2007. A quando un’opera meno qualunquista e facilona?
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