R Recensione

9/10

Only Ones

Only Ones

Fra i molteplici gruppi che animarono la scena punk/wave britannica sullo scorcio degli anni ’70 gli Only Ones rappresentano forse il caso più anomalo e meno etichettabile secondo rigidi criteri stilistici. Il loro fu infatti un continuo muoversi “borderline”, lungo una sottile linea di confine fra nuove tendenze musicali e modelli “oldies” di inizio decennio (rock, power pop, glam); se da un lato l’attitudine di fondo, permeata di urgenza espressiva,  sfrontata immediatezza e immagine trasgressiva, richiamava alcuni degli stilemi propri della rivoluzione punk,  la sostanza musicale era tutt’altra cosa, rinviando spesso a canoni estetici che, in quel momento, risultavano in buona parte, piuttosto demodé.

D’altra parte il primo embrione degli Only Ones era già stato costituito nel 1972 dal cantante/chitarrista Peter Perrett, sotto la sigla England’s Glory, animato dalla determinazione di ripetere le gesta degli eroi preferiti: Bob Dylan, i Rolling Stones a cavallo fa ’60 e ’70 (in particolare quelli di Sticky Fingers),  i Velvet più morbidi, il primo Lou Reed solista, David Bowie, Marc Bolan.

Ma nonostante l’entusiamo ed un discreto numero di splendide canzoni (molte delle quali saranno poi riprese nella produzione successiva) i quattro lungocriniti EG non riuscirono a pubblicare il sospirato esordio discografico (che vide la luce solo molti anni più tardi nel “Legendary Lost Recordings” del 1987) e poco rumorosamente la band si sciolse, ma non la determinazione artistica di Perrett  che, qualche anno dopo, nel 1976, mentre il punk britannico stava mandando i suoi primi messaggi, fonda gli Only Ones, reclutando il chitarrista John Perry, il bassista Alan Mair e il batterista Mike Kellie. La nuova formazione si è arricchita intanto anche di nuove influenze che vanno a sommarsi alle precedenti: il protopunk dei New York Dolls e di Johnny Thunders (con cui Perrett ha collaborato nell’album “So Alone” del 1978), il punk e la new wave della prima ora, riferimenti destinati ad avere non poco spazio nel debutto discografico degli Only Ones (1978) dall’omonimo titolo.

Peter Perrett è l’autore di tutti i brani nonché cuore e mente della band, frontman di edonistica ed innata decadenza, angelo perverso di malato carisma, capace di scavare nella psiche dell’ascoltatore con un vocalismo ora dolcemente avvolgente, ora crudelmente aspro, sospeso fra mr. Reed e il signor Zimmerman; spicca sulla copertina del primo disco la sua eccentrica figura, avvolta in un’ampia pelliccia mélange,  che inevitabilmente finisce per catalizzare l’attenzione anche del più distratto osservatore, lasciando ben poco spazio agli altri membri della band. Anche i testi sono coerenti con la personalità maudit di Perrett; si intrecciano riflessioni su amori tormentati (Creature of Doom, , The Whole of the Law), disagio esistenziale (City of Fun, Another Girl Another Planet, No Peace for the Wicked, Breaking Down) e cupe allusioni all’uso di sostanze stupefacenti (The Beast, Language Problems) componendo  un quadro di inquietante e morboso romanticismo.

L’esordio del disco è subito eccelso, affidato prima all’acquarello pop di The Whole of the Law (con tanto di inserti di sax e vocals alla Tom Verlaine), quasi strappato ai solchi di Transformer o Ziggy Stardust, e immediatamente dopo alla hit che ogni gruppo vorrebbe comporre almeno una volta nella sua vita, quella Another Girl, Another Planet, vero manifesto del suono Only Ones, ponte teso fra i Velvet periodo Loaded e i Clash meno abrasivi.

Basterebbe questo incipit per definire adeguatamente lo spessore compositivo di Perrett e compagni, ma le delizie che l’album riserva sono ancora molte: il ricamo chitarristico jazz/rock della languida Breakdown, l’energico power rock di City of Fun (già presente in una versione assai più asciutta nel repertorio England’s Glory) o la ballata loureediana The Beast. Creature of Doom è probabilmente il brano che più si avvicina all’estetica new wave presentando non poche affinità con gli Ultravox dell’omonimo primo album e con il sound dei Magazine; i  poco più di due minuti di It’s the Truth  invece ci riportano al delizioso pop elettroacustico di ascendenza  dylaniana e loureediana, mentre Language Problem, con la sua sbilenca andatura rock e le sguaiate vocalità di Perrett, è l’episodio che più interseca il mood punk fra Sex Pistols e Undertones. No Peace for the Wicked è altro momento sublime dell’album, irresistibile concentrato di chitarre “televisive”, backing vocals femminili e esangue sensualità, che precede l’estroverso finale, fra glam, psichedelia e power pop, di The Immortal Story.

Prende così avvio la breve stagione musicale (1978-81) degli Only Ones, destinata ad offrire ai nostri insaziabili palati altri due dischi in studio, più svariate raccolte di inediti e antologie, centellinate nel corso degli anni, ma sempre troppo poco per chi ha amato visceralmente un gruppo ormai saldamente assurto al ruolo di vera e propria cult-band.

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Voto degli utenti: 8,5/10 in media su 2 voti.
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C Commenti

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fabfabfab alle 18:24 del 24 febbraio 2009 ha scritto:

Lo ammetto

Questi proprio non li conosco. Provvederò.

paolo gazzola (ha votato 9 questo disco) alle 18:20 del 11 maggio 2011 ha scritto:

Ecco, io m'ero perso la (bella) rece: disco tra i migliori dell'epoca e, guarda un po', tra i meno ricordati/diffusi/incensati. Alle mie orecchie è arrivato pochi anni fa. Ed è stata una rivelazione. Grande segnalazione, Benoit!