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R Recensione

6,5/10

Death and Vanilla

To Where The Wild Things Are

Gli svedesi Death And Vanilla si ritrovano, al secondo album, sotto contratto con la Fire Records e non è un caso: l’occhio di riguardo per le sonorità psych/vintage dell’etichetta non poteva farsi sfuggire la fascinazione per le atmosfere noir d’antan e per il pop retrò del duo di stanza a Malmo.

Una fascinazione che per Marleen Nilson e Anders Hansson rasenta l’ossessione, tanto da arrivare a suonare solo strumenti vintage ed a registrarli tramite un vecchio Sennheiser degli anni ‘70 comprato al mercato delle pulci.

La lenta cinepresa dei Death And Vanilla inizia a girare, sulle piste tracciate da Badalamenti, dicono da oltre oceano; Umiliani, rispondiamo noi. Nei titoli di testa, volendo, possiamo rintracciare tanto il gusto onirico del primo, quanto la classicità del secondo.  “Necessary Distortion”, a passi di xilofono ben ambientati, si trascina in qualche lungaggine di troppo e le stesse atmosfere sono riproposte in chiave meno cupa nella successiva “The Optic Nerve”; il prologo della pellicola non è all’insegna dell’accessibilità.

Se la “soundtrack” apre e chiude il disco (d’altronde i due hanno anche esperienza di composizione di una vera e propria OST per l’horror del 1932 “Vampyr”, sonorizzato in occasione di un festival in terra natia) il suo cuore si rivela più devoto ad un dream pop a cavallo fra la classicità più totale e gli acidi, in una strana posizione che ricorda i La Femme (il gusto francese, l’amore per i compositori, una certa vena freak, qui appena accennata) ma anche degli Stereolab prosciugati di vitalità, dove di retro-futuristico resta ben poco (nel senso che lo sguardo è rivolto totalmente al passato). E gli High Llamas, ve li ricordate? In salsa psych però.

Troviamo allora i pezzi più pop, “Arcana” (la più vicina alle frequenze nordiche), “California Owls”, una Françoise Hardy ubriaca di organi celestiali, inghiottita dalle onde radar dei vibrafoni. Ancora anni ‘60 in “Time Travel”, marcetta ovattata e clavicembali acquosi che sembrano venuti fuori da “Pet Sound”.

Ritorno il lato ambient con le sincopi cinematiche di “The Hidden Reverse”, forse il migliore degli esperimenti narrativi, laddove altrove la meccanicità e ciclicità delle composizioni non funziona, come in "Moogskogen", del cui refrain chiesastico si sarebbe potuto fare un uso migliore, e come funziona appena meglio invece nella conclusiva  “Something Unknown You Need To Know”.

Il film è terminato, belle le atmosfere, ma poco consistente la trama. I mezzi e la padronanza per fare meglio al prossimo appuntamento ci sono tutti.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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target (ha votato 7 questo disco) alle 17:05 del 8 maggio 2015 ha scritto:

A me l'atmosfera che creano piace, e l'ossessività direi che è una parte del gioco. Ci sento anche un po' gli Air delle vergini suicide (tutti quei vibrafoni, le linee melodiche decadenti, la strumentazione vintage), i primi Still Corners e quel dream pop lo-fi e crepuscolare. In più loro ci aggiungono una vena noir più schietta (vd. la copertina del loro primo disco, che sembra uscita dalla penna di Alberto Martini: pavoni, fontane e donne liberty in deliquio) e un torpore psichedelico sfattissimo, per cui la voce è sempre sporcata e tutto si muove in una sfocatura diffusa. "The optic nerve", "Arcana" (più un'alba che un tramonto) e "The hidden reverse" sulle altre. E' un giochetto, eh, ma tocca le mie corde.