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7/10

Jennifer Gentle

Jennifer Gentle

È forse quella la maschera del Leopoldo Mastelloni post-freak e carmelobeniano di Avere vent’anni, il trucco di scena dell’Irons formato M. Butterfly o l’espressiva tumescenza dei manichini dello Spasmo lenziano? Quasi annoiata, fra pantomima e lattex BDSM, la giudicante e scarlatta bocca della verità che fa dechirichiano capolino sulla copertina del settimo disco lungo dei Jennifer Gentle (o di Marco Fasolo? Sopraffini dubbi tautologici) possiede la medesima ambivalenza strutturale dei turbamenti della gelosia che pullulano nel Deep End di Skolimowski: è dramma di formazione, o formazione che finisce in dramma? Detto altrimenti del diciassette apotropaico, che ripartito su di un’ora piove sul deserto di una produzione studio sostanzialmente ferma al 2007 (“The Midnight Room”), per chi non dovesse né volesse contare le agghiaccianti epifanie del misterioso “Concentric” (2010). “Jennifer Gentle”, oggi, non a caso, con o senza il delizioso vestito di purple velvet (ahem) che sfodera sul palco il puntuale Fasolo: crestomazia, biglietto da visita, ristabilimento di gerarchia. Bianco e nero insieme. Il rosso, alla tangente.

La polposa ed affollata première padovana d’inizio mese, per l’occasione condivisa coi diligenti discepoli Orange Car Crash (i cui inediti, per inciso, fanno pregustare un secondo disco davvero degno di nota), si è felicemente conclusa con una versione intontita e potenzialmente illimitata di “You Know Why”, un merseybeat psichedelico che di refrain in refrain scivola verso un’irriverente fanfara glam – immaginate un Marc Bolan prestato ai Broken Social Scene, o dei Flaming Lips incastrati su di un nastro trasportatore. Nel disco è l’episodio dieci, appena oltre la metà aritmetica. Per arrivare a quel punto è già successo di tutto: lallazioni dreamy (“Oscuro”), slabbrati funk tra il minimalismo cannabinoide di David Essex e i variopinti arrangiamenti degli Winstons (“Guilty”), incisi cartoonistici (i caratteristici fiati di “Love You Joe” sono un omaggio a Joe Meek ben prima del titolo), inossidabili singoloni pop venati d’acido (“Beautiful Girl” ha il tiro melodico dei Mojomatics kinksiani della scorsa decade) o proiettati verso un singalong r’n’r così vintage da non poter non suonare simpatetico (“Do You Hear Me Now?”) e visioni paradisiache early Sixties (in “Only In Heaven”, quasi una hit mancata di Linda Scott o Connie Stevens, l’ospite d’eccezione Daniela Savoldi si ritaglia lo spazio per un buon solo al violoncello). Si direbbe abbastanza materiale da riempire le librerie di generazioni di gruppi minori e, in un certo senso, è forse il lascito più solido di “questi” Jennifer Gentle, giunti oramai ad essere istituzione oltre l’istituzione indipendentemente dalla posta in palio (la slide guitar e il solo di pura elettricità che solcano l’orizzonte del lento “What In The World”) o dall’effettiva qualità della scrittura (i barocchismi sparksiani di “More Than Ever”).

In un’altra epoca geologica si sarebbe preso come un complimento l’essere ed esistere fuori dal tempo, soggettivato e oggettivato, proprio e altrui. Che “Jennifer Gentle” giunga nel 2019 anziché nel 1975, che interrompa un silenzio quasi decennale o di pochi mesi ha poca se non alcuna importanza. Importa più che l’autistico industrial di “My Inner Self”, un fulmine a ciel sereno, rivesta l’esclusiva funzione proscenica di preparare il terreno per l’ambizioso musical acoustic-prog di “Swine Herd”, forse la composizione più a fuoco dell’intero disco: o che il non luogo Spiritualized di “Theme”, dopo il glam beatlesiano di “Where Are You?”, serri le fila narrative con perfetta circolarità. Gli occhi di Jennifer, seppur serrati, vedono ancora benissimo.

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