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R Recensione

7/10

Loveless Whizzkid

We Were Only Trying To Sleep

È una scelta geniale, quella di disegnare la copertina del proprio esordio come se fosse un volume della Adelphi. Rende sofisticati e sbilenchi ad un tempo. Iconoclasti e intellettualmente alt(r)i, in un colpo solo. Per tacere poi dell’enciclopedismo in sottotesto: una volontà di sintesi omnicomprensiva difficile da equivocare. Un po’ ecumenici e solomonici lo sono, a modo loro, i ventenni catanesi Loveless Whizzkid: unica colpa vagamente fondata e non imputabile alla giovane età. Sarà la smania d’identità e di incasellamento dei tempi moderni. Un vezzo che rientra in quella lista, decisamente più polposa, che si chiama “sentiamo cosa ne pensa Sacha Tilotta”: il che, specialmente negli ultimi anni – non ce ne voglia Sacha – è divenuto pericoloso, con l’offuscamento del giudizio critico e dell’efficacia fattuale della mente superiore dei Three Second Kiss (nonché importante costola dei – furono? – Uzeda, catanesi anch’essi manco a farlo apposta).

Alla fin fine, poco c’importa. Nella Treccani di “We Were Only Trying To Sleep” – difficile, a certe frequenze… – finiscono tutti quegli anni ’90 che si riteneva fossero stati seppelliti per sempre: e a Seattle, e negli armadi odorosi di flanella, e nell’immaginario collettivo di suburbs assolate e camere spoglie, sudicie. Vi finisce un mondo, sgraziato, di filastrocche dementi, di riff indefiniti, di strumentali iniziate ma non finite, di melodia disintegrata da fuzz e feedback, di psichedelia da due soldi in crescendo. Non parla un appassionato del genere ed un cultore dell’estetica specifica, ma il noise triangolare di “Lovely Ball Of Snot” – innescato da uno strato di arpeggi sovraincisi maniacalmente – il “gancio” dell’indolente “Jassie’s Disappeared”, perso nella lava tra Nuggets, Nirvana, Pavement e Shellac (con quel basso iperdistorto e catramoso in prima, ma che dico, primissima linea) e l’inquietudine crepuscolare, azzurrognola di “We’ll Really Miss You, Santa Claus…” (post rock spigoloso ed esiziale che smotta in sordide armonie vicine all’hardcore: c’è ancora bisogno di sottolineare come i primi Slint siano, ad un tempo, presto post rock, mediano noise e tardissimo hardcore? Come le tre denominazione valgano una?) testimoniano un songwriting di livello e chiarezza a tratti impressionanti.

Arrivare ad un terzo scarso di disco, e pensare già ai tentacoli proiettati verso il futuro, non è cosa da poco. Se questo power trio farà strada – metaforicamente o meno –, come tutti ci auspichiamo, diverrà difficile anche solo pensare ad una nuova “The Golden Cockroach’s Pinball Song”, nove minuti e mezzo di pura delizia sommatoria tra le friggioni rumoristiche dei primi Velvet Underground, mazzate di beat psichedelico in pieno volto e gli Arctic Monkeys a perdere pezzi on stage: la sola spregiudicatezza muove queste trame. Difatti, altrove, compaiono già germi di bilanciata moderazione: schema “Bleach” all’opera in “Hail To The "Lil" Gorilla” e spastici lampi Minutemen neutralizzati da colate weezeriane in “Blue Butted Baboons”. Ad entrare nella collana Adelphi, però, sarà la lezione deforme di “Billie Joe’s Colourful Laughter”.

A buon rendere, ragazzi.

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