Cowboys International
The Original Sin
Ho sempre pensato, anche se a prima vista potrebbe trattarsi di tesi decisamente curiosa, che, fra il synthpop britannico sviluppatosi fra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 e il movimento filosofico dei Sofisti, sorto ad Atene fra la seconda metà del V secolo a. C. e la prima metà del secolo successivo, vi fossero delle sorprendenti affinità e analogie. Per prima cosa entrambi i termini, nell’immaginario collettivo dei non addetti ai lavori, hanno assunto delle caratteristiche alquanto negative, scivolando verso aree semantiche prossime al significato di “autocompiacente”, “artificioso”, “vacuo” e addirittura “ingannevole” (si pensi ad es. alla “sofisticazione” dei vini).
In secondo luogo, chi si è occupato, con spirito più critico e maggiore cognizione di causa, dei due movimenti in questione ne ha potuto, viceversa, riconoscere anche i tratti originali e distintivi, capaci di realizzare importanti mutamenti di costume attraverso linguaggi ed idee innovative che hanno lasciato delle significative eredità in ciò che è venuto dopo. Infine tanto il synthpop che la sofistica possono essere suddivisi in due fasi cronologiche e, insieme, culturali, assai diverse fra loro.
La prima generazione di Sofisti è stata in grado di agire in profondità sul pensiero della sua epoca, rinnovandolo con ardite provocazioni intellettuali e visioni antropologiche del tutto inedite, ma la seconda ondata, la cosiddetta Eristica, ha finito per far prevalere gli aspetti più capziosi, autocelebrativi, appariscenti, fini a se stessi, tradendo i presupposti del movimento.
Analogamente il synthpop ha conosciuto una prima fase assai stimolante musicalmente che, pur non rinunciando alla piacevolezza e al riscontro pop(olare), ha inserito nel suo lessico sonoro riferimenti “colti” (dai Kraftwerk ai Velvet Underground, dai Roxy Music al Bowie del periodo berlinese, dalla musica classica al punk) e non ha mai rinunciato a intrusioni sperimentali e avanguardistiche (si pensi a brani come Bunker Soldiers o The Messerschmitt Twins degli OMD assai lontani dalle ben più conosciute Electricity ed Enola Gay); poi, con i primi eighties gli aspetti più frivoli ed edonistici, un certo disimpegno dance-oriented hanno finito per prevalere concretizzandosi nell’involutivo fenomeno new romantic.
I Cowboys International appartengono senza ombra di dubbio alla generazione più creativa e stimolante del synthpop britannico e ne costituiscono, allo stesso tempo, uno degli esempi più affascinanti e misconosciuti. Dietro lo sfavillante, malinconico, solare, teso post-punk neo pop elettronico della band si cela il factotum Ken Lockie, compositore, tastierista, cantante di Newcastle, che sul finire dei ‘70s mette in piedi un vero e proprio supergruppo composto da svariati personaggi della scena punk-new wave inglese che vanno e vengono, ognuno portando il proprio contributo al progetto CI; musicisti come Keith Levene (PIL), Terry Chimes (ex Clash), Marco Pirroni (Adam And The Ants), Steve Shears (ex Ultravox) intersecano il percorso artistico di Ken Lockie che, comunque, alla fine resta l’unica vera ragion d’essere delle note dell’esordio discografico, The Original Sin.
Il suo cantato, che evoca gli Human League e John Foxx, David Bowie e la voce nasale di Lou Reed, dotato di un genuino calore capace di esprimere l’angoscia esistenziale, rappresenta il contrappunto umano alle frizzanti ma algide sonorità degli strumenti. Le canzoni, contraddistinte da testi criptici e dominate dalle tastiere, sono costruiti su riff minimali e metallici, in cui comunque anche il lavoro della batteria e delle chitarre (in particolare il cosiddetto effetto “acquarium” della chitarra di Rick Jacks) riveste non minore importanza: l’impressione in ultima analisi, nonostante che ogni traccia viva di una sua ben definita identità e nessuna somigli ad un’altra, è quella di una comune sensibilità, di un’estrema coerenza compositiva.
“Pointy Shoes” è un dissonante punk-pop, giocato sulla contrapposizione fra l’incalzante sezione ritmica ed una stridula armonica a bocca, “Trash” potrebbe essere un brano degli Orange Juice incantati da balocchi digitali, “Part of Steel” vibra di intenso romanticismo e scolpisce suoni fra Roxy Music e Ultravox, “Here Comes A Saturday” è ballad dolcissima via Bowie e Lou Reed, impreziosita dalla tessitura chitarristica di Levene; “Original Sin”, “Aftermath” e “Hands” sono tre anthemiche, luccicanti pop songs sospese fra suggestioni glam e futurismi sintetici new wave; inizia assai sperimentale e liquida “(M)emorie 62” ma ben presto dà ragione al suo titolo e si trasforma in un divertito pop d’antan, “Lonely Boy” è coinvolgente intreccio di rock-pop-dance con la voce di Lockie al massimo delle sue possibilità fra dramma e gioco. La breve parentesi minimale di “The “No” Tune” (unico brano strumentale del disco) è breve e commovente sintesi di classicismo e sperimentalismo alla Brian Eno che ci conduce alla conclusiva “Wish”, danza metallica avvolta dalla tessitura chitarristica di uno stratosferico Levene.
La storia dei Cowboys International finisce qui: fra defezioni e problemi con la casa discografica Lockie tenta una carriera solista che parte male (The Impossibile, 1981), si interrompe per un periodo di collaborazione con i PIL e riprende virando in direzione dance music. Spesso i Cowboys International sono stati considerati un’influente ispirazione per il movimento New Romantic; può in parte anche essere vero, ma certamente nessun gruppo NR è stato in grado di raggiungere la loro profondità espressiva, nessuna band NR è riuscita a comporre un brano come “Today Today” (singolo sfortunatamente non inserito in OS), splendida sintesi di struggenti archi, onde multicolori di tastiere e geometrico techno-beat, vero manifesto di una band seminale, che ha rappresentato una delle vette della new wave electro-pop.
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