Crystal Castles
(III)
Parlando degli sviluppi electro di questi anni, dal fenomeno witch house alle derive gotiche di molto synth pop, è difficile evitare il loro nome. I Crystal Castles sono stati, soprattutto con il loro esordio del 2008, uno snodo fondamentale: pop ma abrasivi, melodici ma disturbanti, ballabili ma in modo paranoide, ossessionati dai bleeps digitali ma pronti a insozzarsi di unumanissima sporcizia, hanno rappresentato la rabbia rappresa di una generazione. E Alice Glass, con il suo nome fragile e spigoloso come le sue fattezze, è stata la sua piccola icona nera. Se il secondo disco aveva confermato questo status quasi totemico, infilando una serie di brani già classici del genere, (III) suona come una prosecuzione troppo prevedibile degli album precedenti, con tanto di copertina ad hoc per alimentare laura maudit devozionale. Il mordente, insomma, è un po stinto. E la sensazione è quella del disco autocelebrativo.
Dentro (III) cè tutto quanto la fandom potesse chiedere al duo canadese. La produzione è grossolana, i synth violenti, la voce della Glass sempre meno riconoscibile e più perduta, tra linee melodiche che cercano di immettere dolcezza in mezzo al magma di scorticature e massimalismo electro. Mentre i riferimenti 8-bit e chiptune sono ormai ridotti allosso (Pale Flesh) e lattitudine punk quasi cancellata (Insulin però scuoia come un inferno), a dominare sono abbozzi electro-destrutturati e scartavetrati classicamente Crystal Castles, che spesso però si afflosciano nel momento stesso in cui ci si aspetterebbe un loro sviluppo (Transgender, Mercenary, Telepath).
A funzionare sempre e comunque sono gli episodi epici (emo, pure?), da Wrath of God alleccellente Plague, con brividi di godimento allaltezza di Violent Youth e soprattutto di Sad Eyes, smangiata da unonda tra rave e dance anni 90 che è puro spettacolo (il passo è totally Pet Shop Boys). Non mancano le tregue dreamy, pure calcolate ad arte, e più efficaci nella versione eterea (Child I Will Hurt You) che in quella witch-natalizia (Affection).
Alla fine limpressione è di un disco più omogeneo rispetto ai precedenti e con meno escursione tra gli estremi: focalizzandosi, Kath e Glass si sono mantenuti brutali, ma con effetti inevitabilmente meno scioccanti, un po per la continuità persino troppo piana con "II", un po per un eccesso di normalizzazione (che alla furia non fa mai bene). Manna per i fan, ma il terzo capitolo segna un po il passo.
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