R Recensione

7/10

Junior Boys

Begone Dull Care

Troppo oneroso – e anche un po’ spossante, vista la calura – decantare le lodi di un disco epocale come “Last Exit” (Domino/Kin, 2004): qualcosa come il synth-pop ripensato (e decostruito) per il nuovo millennio, poggiato sui moduli della dance elettronica (trip-hop in primis, ma pure UK garage e l’R&B scricchiolante di un produttore/stregone come Timbaland), decontestualizzato e riedito in tutta la sua astrattezza. Troppo oneroso, si diceva, parlarne in questa sede. Oggi si fa economia: semplicemente Jeremy Greenspan e Matthew Didemus, canadesi, alla terza prova dopo l'interlocutorio “So This Is Goodbye” (Domino, 2006). Si riparte ordunque con le soggettive sfocate, le pulsazioni minimali, quelle melodie che prendono pieghe strane (“Bit & Pieces”, eco della “Birthday” che fu), l’irrisolta malinconia che s’insinua nei pertugi di un “meta-synth-pop” a cui disgraziatamente han messo nome indietronica. Esattamente quello che ti aspetteresti dai Junior Boys, insomma, né più né meno.

Eppure è un disco che ha un suo perché, questo “Begone Dull Care”. Certo, il formalismo è alle stelle, ma in compenso i sentori “blue-eyed soul” (virato cyborg) non sono mai stati così incisivi, tanto nel canto flessuoso quanto nelle parti strumentali. L’uno-due composto da “Hazel” e “Sneak A Picture”, in tal senso, rasenta la perfezione. Pare quasi d’assistere alla trasfigurazione electro degli Style Council, o alla versione 2.0 del soul britannico di metà ‘80 (“english cool” venne definito all’epoca): languido sax e frattaglie di chitarre in staccato a massaggiare un corpo sibilante, dalle curvature mollicce, come panna acida emulsionata a zucchero vanigliato. Di contorno, una torch song riletta dai Kraftwerk (“Dull To Pause”), discreti interventi d’archi (“The Animator”) e ovunque quelle tastiere che, come le chitarre negli A.R. Kane, paiono più idee che segni.

“Pure questo è il Canada” mi verrebbe da dire, ma sarebbe un complimento immeritato. Immeritato perché il vero apprendistato musicale Jeremy Greenspan lo ha svolto in Inghilterra, nella seconda metà dei ‘90s, a contatto con le istanze più eccitanti prodotte dal vivaio “electronico”. E anche se oggi la sua barba sembra più consona al look neo-hippy da Puffo Naturone tanto caro ai “collettivi animali”, nella voce risplende un sussulto emotivo capace di legarsi a quelle esperienze, pur trascendendo geografie e icone. Quella voce che in “Last Exit” pareva un ipnotico, filiforme vagito, e che ora fa appena un passo in avanti, restando sempre funzionale alle tessiture (i falsetti della conclusiva, paradisiaca “What It’s For”): un ansimare da cui esala tutto il dolciastro impaccio di un emo-kid un po’ cresciutello, ragazzone “mal disegnato” a far l’equilibrista fra sogni e paure, ben conscio della sua inadeguatezza (“Women like you know what to say/ You know when to move, you know when you shouldn’t stay (…)/ Blind men like me can never hold on/ then it’s gone/ Blind men like me don’t know how to behave at all”).

Esuberante come un Martin Fry sotto sedativi (gli ABC e il resto del carrozzone “New Pop” sono sempre stati un suo pallino fisso), Greenspan si sporge cautamente dal davanzale della vita, aspirando a un ideale di eleganza irraggiungibile (mutatis mutandis, ecco riapparire l’idea tutta british di “soul”: finezza dialettica mista a freddo distacco). Ideale oggi rinfrancato – ma non si doveva fare economia? – dall’accostamento, a prima vista temerario, con l’opera di Norman McLaren (1914-1987), regista d’animazione canadese a cui il duo ha voluto rendere omaggio con questa nuova uscita. E allora affrontiamola di petto, la questione: dov’è che sta il link (formalismo a parte, s’intende) fra il “suo” “Begone Dull Care” (cortometraggio del 1949) e il disco in esame? Come accordare quel febbrile flusso di colori, lo stupore che si rigenera incessante al ritmo di jazz, con le soporose atmosfere del duo? Se proprio, sarebbe stato più confacente il parallelismo col ballonzolante “Mosaic” (1965) e il suo intrecciarsi/moltiplicarsi di palline da flipper in salsa “pre-glitch” (occhio alla colonna sonora!).

Questa la prima reazione, a caldo. Poi ci si accorge che le similitudini – quelle basilari, fondanti –  stanno sotto il nostro naso, ed eravamo noi i ciechi (o gli sciocchi) ad aver scambiato per arachidi un gruzzolo di noci di cocco (so che la pagherò cara per questo paragone…). In primis l’idea di astrattezza: come gli 8 minuti di “Begone Dull Care” riassumevano le possibilità di sperimentare con gli elementi base del cinema d’animazione (“linee, movimento, colore, tessitura e ritmo visivo”), così i Junior Boys ne sfruttano gli equivalenti in studio di registrazione per allestire un affresco perennemente in progress, con la differenza che qui ogni mutamento è sottile, ogni trasformazione quasi impercettibile. Si pensi al “neutro” gioco di linee bianche su sfondo nero riecheggiato in “Parallel Lines”, il cui senso ritmico è esaltato dalle sincopi ammorbanti dei beat, dai bassi ottundenti, dagli stiracchiamenti digitali: non è forse direttamente connesso a un frammento di filmato? E il procedere verticale di quest’ultimo non è forse riflesso nella musica? A me pare che, a dispetto della sua apparente orizzontalità, quello di Greenspan & Didemus sia infatti un condensato di sgocciolii verticali, un lacrimare “pollockianamente” soggetto alla forza di gravità.

Abolita la violenza del gesto, a regnare è un acclimatato “abstract-pop”, bozzolo di consistenza “budinosa”, pudore adolescenziale rimestato a velli elettronici. Descrizione che calza a pennello a “Last Exit” – se non si fosse ancora capito, è quello il lavoro che dovete subito andarvi a (ri)ascoltare – e che qui cozza lievemente contro la minor dose di coraggio, come se il gruppo avesse deciso d’andare sul sicuro, sfruttando un idioma musicale ormai codificato. Ma non fategliene una colpa: quell’idioma l’hanno coniato loro. Ecco perché, nel suo balbuziente romanticismo, “Begone Dull Care” (disco) conferma il duo come uno dei progetti-simbolo della decade, imprescindibile per i posteri che vorranno capire cosa sono stati, avant-folk e glitch a parte, questi anni ’00. Non so voi, ma a me basta e avanza.

V Voti

Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 5 voti.
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Cas 7/10
treno 8/10

C Commenti

Ci sono 4 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Cas (ha votato 7 questo disco) alle 10:41 del primo agosto 2009 ha scritto:

Interessante la capacità di rivitalizzare il genere senza fare ricorso a "futurismi" vari (stile Late of the Pier per intenderci)...Adesso mi devo procurare Last Exit però!

Dr.Paul (ha votato 7 questo disco) alle 14:31 del 12 agosto 2009 ha scritto:

eh questi zitti zitti non sbagliano un colpo, il primo last exit voto 8.5, so this is goodbye 8-, begone dull care 7. bravi loro e matteo che li ha pescati!!

synth_charmer (ha votato 8 questo disco) alle 14:35 del 12 maggio 2010 ha scritto:

è il più manierista dei loro dischi, ed è forse per questo che viene apprezzato meno. Punta molto più alla forma che all'idea. Nel filone pop, però, la forma mi sembra la cosa più importante, per questo il mio voto è tanto alto.

treno (ha votato 8 questo disco) alle 18:20 del 12 maggio 2010 ha scritto:

’uno-due composto da “Hazel” e “Sneak A Picture”, in tal senso, rasenta la perfezione

detto questo detto tutto.

gran disco, loro davvero bravi.