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R Recensione

7,5/10

Kate NV

Room For The Moon

Quando Katja Šilonosova, nel brano che inaugura le danze di “Room For The Moon” (“Not Not Not”), si inserisce nel coreografico arrangiamento art pop (un gioco di specchi fra synth bizzosi, percussioni ludiche, chitarrine schermate, addirittura un sax aukcyoniano che sul finale sembra trovare la quadra armonica) e si mette a cantilenare “You’ve got no time / You’ve got no time / Soon! / You’re getting old / You gotta not not not”, sembra di rivedere la giovane Laurie Anderson di metà anni ’70, in bilico sui pattini mentre il ghiaccio che la sostiene si scioglie a ritmo serrato: più che l’haunticipazione verde e un po’ apotropaica del memento mori, dunque, un invito a far prima che si può, ad essere sempre e comunque in condizione di giocare la prima mossa. Che uno slancio d’urgenza del genere venga da una giovane donna della provincia russa, trasferitasi per motivi di studio da Kazan’ a Mosca e qui assorbita da quei circoli (contro)culturali della capitale (gli stessi in cui si guadagnerà l’agognata nomea di agitatrice, prima come frontwoman dei Glintshake, poi in singolo), è alquanto rivelatore dello stato delle cose di una direzione artistica che, nel suo cambiare costantemente in superficie, mantiene una profonda, coraggiosa coerenza.

Terzo squillo da solista in appena un lustro, secondo consecutivo per la rinomata RVNG Intl., “Room For The Moon” è stato descritto perlopiù come un ritorno all’estetica nippocentrica dell’esordio “Binasu” (2016) e in dialettica discontinuità con il capitolo che lo precedeva, “для FOR” (2018), raccolta eterogenea di bozzetti folktronici e fatate micropièce teatrali a misura di monolocale. Questo giudizio, apparentemente motivato dall’evidente diversità di manifestazione formale tra i due dischi (fino a un certo punto: “Du Na”, esotica casa delle bambole che ruota su un giro di basso in 5/4, sembra di fatto un’elaborazione orchestrale di brani come “раз ONE”), non tiene tuttavia conto dell’evidente comunanza performativa che rende già riconoscibile il tocco di Šilonosova: dimensione da happening situazionista, da spazio e luogo in cui succedono o, per meglio dire, si inscenano delle cose. Da qui – nei radi momenti in cui le tessere del puzzle permettono di ricostruire una certa continuità lirica – il vorticoso e mai pretenzioso sovrapporsi delle lingue (perlopiù russo e inglese, con frivole puntate nel francese e nel giapponese): da qui i pervasivi, costanti richiami metamusicali (diffusissimi, come in “для FOR”, gli espedienti da quarta parete della conta e delle stage directions sussurrate in presa diretta); da qui, anche, l’orizzonte policromo di una musica in cui riescano a stare assieme vaudeville e Čajkovskij (è il “Piano Concerto N° 1” quello che, accarezzato dalle note a margine di un basso e solleticato da un loop nu-gaze, traspare fra le trame di “Tea”), il synth e l’art pop, il crinale tra Giappone ed Europa, tra anni ’70 e ’80, tra mondo contemporaneo e memorie televisive ricostruite retrospettivamente.

Una cosa è certa: rispetto a “для FOR”, la godibilità di pancia di “Room For The Moon” è incomparabilmente maggiore, meno incatenata a (e dipendente da) sovrastrutture concettuali. Che si alternino sillabe onomatopeiche naufraghe a vista in un’oscura synth-wave mejerchol’diana, illuminata a sprazzi dalle fenditure orizzontali di una chitarra talkingheadsiana (“Sayonara”), luccicanti vertepy per bimbi venati di una sfuggente eppure ubiqua malinconia (nella migliore tradizione dei bardi sovietici, il ritornello di “Telefon” recita letteralmente “Dove, dove, dove ci porteranno le luci dei ricordi / Dove, dove, dove, salutiamoli con la mano / Dove, dove, dove ci trascineranno questi minuti insensati / Dove, dove, dove, e mai si può tornare indietro”), sinfonie cameristiche d’esistenzialismo plunderfonico giocate su interessanti pluriaccentuazioni ritmiche (“Marafon 15”) o echi di japan-wave al femminile progressivamente sovrastati da un bizzoso arrangiamento cabarettistico (“Plan”), le idee sembrano davvero non finire mai. E anche se qui e lì, com’è normale che sia, v’è qualcosa che impressiona meno (per chi scrive, l’orchestrina deragliante del gattonante art pop di “Ça Commence Par” e la quasi citazione badalamentiana della vapor-folktronica di “If Anyone’s Sleepy”), mai si ha la sensazione di finire in un loop autoreferenziale, senza via d’uscita.

Che pure esiste, ma è quello in cui Kate NV si infila per riemergerne, al lato opposto del Zazerkal’e, come Alisa v Strane čudes, Alice nel Paese delle meraviglie. Sipario (per ora).

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